Ci sono vari fronti di guerra aperti, ma solo uno conta davvero e non è mai menzionato. È un fronte che potrebbe cambiare il volto dei rapporti commerciali globali per sempre, perché porrebbe fine al rapporto privilegiato tra Usa ed Europa e si baserebbe sulla cosiddetta “Nuova via della Seta”, ovvero una interconnessione tra Cina, Russia e Ue che creerebbe non solo un soggetto praticamente imbattibile a livello economico, ma sancirebbe anche la fine del cosiddetto secolo americano. E gli Usa, soprattutto i corpi intermedi del potere, quelli che hanno il compito di sobillare e destabilizzare, questo non possono accettarlo. E stanno già lavorando, utilizzando il campo di battaglia siriano per spaccare l’asse portante di questa rivoluzione nei rapporti Est-Ovest: la rottura delle relazioni tra Mosca e Ankara dopo l’abbattimento del jet russo da parte dell’artiglieria turca è stato l’estremo regalo di Erdogan agli Stati Uniti, i quali gli hanno garantito non solo protezione Nato militarmente, ma soprattutto protezione politica da possibili colpi di mano.
Per capire quanto il quadro di destabilizzazione stia crescendo a livello globale, basta citare l’ultima mossa russa. Proprio lunedì, dopo aver mandato un chiaro segnale alla Nato armando i caccia Su-34 anche con missili aria-aria a corto e medio raggio, l’Ufficio del Procuratore generale ha infatti bannato come indesiderate una serie di associazioni straniere, con a capo la Open Society del ben noto “filantropo” George Soros. Il bando fa divieto a cittadini e associazioni russe di partecipare a ogni progetto di questi gruppi, definiti – in base alla legge “Patriotic stop-list” emanata lo scorso luglio dal Senato russo – “una minaccia per le fondamenta dell’ordine costituzionale russo e per la sicurezza nazionale”. In totale sono 12 gruppi, tra cui compaiono il National Endowment for Democracy, l’International Republican Institute, il National Democratic Institute, la MacArthur Foundation e la Freedom House. Guarda caso, tutte organizzazione che hanno lavorato alacremente con il Dipartimento di Stato Usa nella creazione ad hoc delle varie primavere arabe e delle rivoluzioni colorate ad Est.
E perché lo ha fatto Putin? Perché sa che il prossimo obiettivo sono i Balcani e vista la grande influenza russa sull’ex mondo slavo occorre muoversi per tempo, bloccando in patria i cosiddetti “agenti provocatori” al fine di mandare un messaggio anche a tutti i Paesi ex-jugoslavi e confinanti. Gli Usa hanno due priorità: primo, bloccare il progetto della pipeline turco-russa South Stream e l’incidente bellico in Siria pare riuscito, almeno per ora, nell’intento; secondo, muoversi in anticipo per bloccare sul nascere l’estensione potenziale di quel progetto, ovvero il cosiddetto Balkan Stream, come mostrato nella mappa a fondo pagina.
A far drizzare in un primo tempo le antenne a Putin è stata la fallita rivoluzione colorata del maggio di quest’anno in Macedonia, grazie a Dio stroncata sul nascere dai cittadini stessi. Il secondo step di destabilizzazione balcanica doveva essere la Grecia pre e post-referendum sull’austerity, ovvero la speranza di una deposizione di Alexis Tsipras e l’avvento dell’ennesimo governo fantoccio filo-Ue e filo-Usa che mandasse in cantina per sempre il progetto Balkan Stream a favore di quello gradito a Washington, l’Eastring. Altro fallimento, i cittadini greci hanno scelto e i Balcani hanno retto un’altra volta all’assalto. Poi, la terza fase, il 24 novembre in Siria con l’incidente che ha visto un jet russo colpito dall’artiglieria turca e il graduale irrigidimento dei rapporti tra Ankara e Mosca, fino al congelamento totale dei giorni attuali con tanto di sanzioni imposte dalla Russia sui cittadini turchi (divieto di assunzione per le ditte russe e stretta sui visti).
In compenso, domenica Turchia e Ue si sono strette la mano a Bruxelles, non solo garantendo ad Ankara 3 miliardi europei per la gestione dei migranti, ma anche spalancando le porte all’ingresso di Ankara nell’Unione, bloccato per ora di fatto solo dal veto cipriota sull’Articolo 17. La strada, però, pare spianata e i rapporti tra Bruxelles e Ankara non sono mai stati così idilliaci: chissà come mai? Forse perché l’Ue è talmente serva di Washington e della Nato da non pensare al proprio interesse nemmeno quando se lo vede davanti? E come spiegare altrimenti le dichiarazioni bellicose di Erdogan, il quale pur sbugiardato dai fatti ha ammonito Mosca a «non giocare con il fuoco», quasi fosse pronto allo scontro totale? E come mai il silenzio europeo sul traffico petrolifero dell’Isis attraverso la Turchia, con il figlio di Erdogan tra i promotori? Insomma, gli Usa al terzo tentativo sono riusciti nel loro intento: congelare South Stream e stroncare sul nascere Balkan Stream.
Già, perché ora solo due ipotesi possono entrare in campo: o la Turchia cambia idea e ritorna a parlare con Mosca oppure il popolo caccia Erdogan, magari con l’aiuto dell’esercito che in Turchia è garante della Costituzione e della laicità da possibili svolte teocratiche. Anche perché il fatto che Erdogan stia lavorando per un’agenda Usa e non nell’interesse del suo popolo lo dimostra il primo grafico, il quale ci mostra la dipendenza turca dal gas russo, visto che lo scorso hanno Ankara ha pagato 10 miliardi di dollari a Gazprom per la fornitura, tanto che la Turchia rappresenta un terzo dell’export di gas naturale del gigante energetico russo. Inoltre, gli altri due grafici ci mostrano come la Russia sia il secondo partner commerciale turco e la più larga fonte di importazione, ma anche che Ankara non dipende da Mosca solo per il gas ma anche per l’importante industria del turismo. Insomma, ciò che ha fatto Erdogan è folle, senza senso e controproducente a livello economico. A meno che gli Usa non abbiano messo sul piatto un osso troppo succulento da poter rifiutare, tanto che proprio ambienti Nato arrivano a ipotizzare, in caso di ulteriore raffreddamento dei rapporti tra Russia e Turchia, la chiusura dello Stretto del Bosforo al fine di bloccare i rifornimenti di armi ed energia russi alla Siria, costringendo Mosca al trasporto aereo o via Gibilterra. Ankara non può, perché una chiusura unilaterale significherebbe una violazione delle leggi internazionali, ma quando certe voci cominciano a circolare, lo fanno sempre per un motivo preciso: e, casualmente, il 30 novembre è accaduto.
Prove generali di showdown? Nessuno, a questo punto, può sapere dove si arriverà con le provocazioni. Cosa potrebbe intervenire in questo contesto? Pechino. Perché alla base di tutto, anche di Balkan Stream, c’è il concetto della nuova strategia infrastrutturale internazionale lanciata da Pechino con il nome di “One Belt, One Road”, ovvero proprio la Nuova Via della Seta che avrebbe nella mega-ferrovia ad alta velocità che transita per i Balcani il suo punto di forza, soprattutto perché vedrebbe garantito alle merci provenienti dalla Cina via Russia lo sbocco al mare dei porti greci del Pireo, i quali non a caso sono stati comprati proprio dai cinesi durante il programma di privatizzazione imposto dalla troika ad Atene (che geni gli europei, dei veri strateghi).
Il progetto di interazione tra Asia e Ue tramite la Russia non è una fantasia geopolitica, ma è stato formalizzato nel 2012 al primo meeting WChina and Central and Eastern European Countries” (China-Ceec) tenutosi a Varsavia e due anni dopo, a Belgrado, ha visto produrre l’idea proprio della ferrovia ad alta velocità Budapest-Belgrado-Skopje-Atene, descritta all’epoca come Balkan Silk Road. Di più, quest’anno il meeting tenutosi a Suzhou in Cina ha prodotto un’agenda di medio termine 2015-2020 che, tra le altre cose, proponeva la creazione di un’agenzia di finanziamento comune per offrire credito e fondi per gli investimenti per questo progetto e altri, parlando per la prima volta apertamente di “China-Eurasia Land-Sea Express Line” da integrare e implementare nel futuro con il “New Eurasian Land Bridge Economic Corridor”: insomma, una rivoluzione. La quale, però, taglierebbe fuori gli Usa dal grande commercio globale e, con lo yuan che sta per essere inserito nel paniere delle monete di riserva del Fmi (entrerà dal 1 ottobre del 2016 e con un peso percentuale sul totale superiore a quello di yen e sterlina, il 10,92%, come confermato proprio lunedì dal Fondo), metterebbe pesantemente a repentaglio il ruolo di benchmark del dollaro, in primis nei commerci trilaterali ma anche nel business del petrolio a livello globale.
Di più, per il quotidiano cinese Xinhua, i partecipanti al vertice erano d’accordo sul fatto che il progetto della tratta Budapest-Belgrado fosse completato entro il 2017. Ovvero, di fatto, oggi. Ecco la fretta e la poca “diplomazia” dell’intervento Usa su Erdogan affinché alzasse il tiro in maniera controproducente con Mosca, arrivando allo stallo diplomatico e al congelamento delle relazioni attuale. Insomma, occorre bloccare South Stream per bloccare il Balkan Stream e il progetto di integrazione commerciale e infrastrutturale tra Cina-Russia-Europa, per gli Usa questa è una priorità assoluta. Anche perché, il cuore del progetto è nei Balcani, visto che proprio l’hub ungherese di Budapest avrebbe dovuto finalmente garantire il collegamento Nord-Sud tra Ungheria e mercati adiacenti (Germania e Polonia) e lo sbocco al mare dei porti del Pireo per le merci da Est: un link diretto che eliminerebbe lunghissime e costose circumnavigazioni, più profittevole ed efficiente per tutte le parti coinvolte. Europa in testa, perché così facendo le nostre merci diverrebbero competitive sul mercato russo (cui magari bisognerebbe levare quelle sanzioni da imbecilli che abbiamo messo), cinese, ma anche delle altre economie non occidentali in espansione, come India ed Etiopia.
Ma noi siamo troppo ontologicamente schiavi di Washington per pensare ai nostri interessi e, soprattutto, con la nostra testa. Noi diamo 3 miliardi a chi fino a oggi ha reso possibile la più grande invasione di sempre dell’Europa a livello di migrazioni e che ha mantenuto un atteggiamento quanto meno equivoco nei confronti dell’Isis. Noi apriamo le porte dell’Ue alla Turchia, non capendo che così facendo le apriamo a livello “proxy” a chi da sempre contrasta l’idea di Europa indipendente dal punto di vista economico e commerciale: ovvero, gli Stati Uniti. Se perdiamo questo treno, in tutti i sensi, Pechino e Mosca perderanno l’accesso al mare Mediterraneo garantito dal Pireo, ma andranno avanti lo stesso con i programmi infrastrutturali e di integrazione, a Est e con l’Africa. Noi, invece, resteremo attaccati alle gonne di Washington, perdendo quote di mercato e investimenti, soprattuto quelli russi, cinesi e del Far-East, che prima o poi tornerà a crescere. Davvero un’Unione di deficienti.