I cimiteri della politica economica sono pieni di banchieri centrali che hanno sbagliato il timing del loro intervento sui tassi di interesse, soprattutto dopo che Lehman Brothers ha cambiato il corso della storia finanziaria moderna. La Bce alzò i tassi due volte nel 2011 e il risultato, facilitato da grossi carichi di debito pubblico e dalla speculazione, fu il quasi collasso dell’unione monetaria: ma si sa, fa più comodo addossare tutta la colpa alla Grecia piuttosto che agli errori dei cosiddetti regolatori. Ma anche in giro per il mondo gli aspiranti stregoni monetari hanno fatto parecchi danni: in Svezia, Danimarca, Corea, Canada, Australia, Israele e Cile, tanto per citare i casi più eclatanti, le scelte rialziste sono state seguite da repentine inversioni a U, tanto che in alcuni casi – come quello scandivano – si è dovuti andare in territorio negativo per cercare di compensare il danno provocato.
La Fed ha atteso molto prima di rialzare i tassi di un quarto di punto, nove anni dall’ultimo aumento e sette dalla discesa a tassi a zero, ma le condizioni macro non erano affatto propizie per operare in tal senso, come ci mostrano i due grafici a fondo pagina, relativi all’indice dello stress finanziario della Fed di St. Louis: perché proprio ora? Certo, il tasso di disoccupazione è sceso al 5%, di fatto la piena occupazione per un mercato del lavoro mobile come quello Usa e solo negli ultimi due mesi sono stati aggiunti 509mila posto di lavoro e sono nate più aziende di quanto non accadde nel picco della boom tecnologico del 2000. Ma ci sono delle criticità: la massa monetaria M1 e M2 è passata dal verde al color ambra e anche se non rimanda flash rossi di allarme come a metà del 2008, lo stress sul credito è già visibile, basti pensare al mercato dei bond ad alto rendimento di cui vi ho parlato la scorsa settimana e di cui vi parlerò ancora più avanti nell’articolo. Inoltre, questa è la seconda volta – la prima, disastrosa, fu nel 1937 – che la Fed alza i tassi durante un periodo di pre-recessione come quello attuale, certificato dall’indice Ism manifatturiero che è al di sotto della linea di espansione dei 50 punti: lo stesso Pil nominale statunitense è sceso dal 5% di metà 2014 all’attuale 3% scarso.
Per Danny Blanchflower, professore alla Dartmouth ed ex rate-setter per la Bank of England, «il mercato del lavoro Usa non è forte come sembra. L’inflazione, poi, non è nemmeno minimamente vicina al target del 2% e l’economia mondiale fatica a respirare. C’è un 50% di possibilità che la Fed debba fare marcia indietro». Per Lars Christensen della Markets and Money Advisory, «basterà solo uno shock, è stata una scelta sbagliata alzare i tassi, visto che la capacity utilization nell’industria Usa è calata negli ultimi cinque mesi».
Certo, la vera contrazione monetaria non è cominciata adesso ma due anni fa con la fine del Qe3, uno squeeze di liquidità che ha permesso al dollaro di apprezzarsi del 19% sul broad index dal luglio dello scorso anno a oggi, ma resta il fatto che, in un mondo dove i mercati emergenti annegano in 9 triliardi di debito corporate denominato in biglietti verdi e drenano riserve valutarie per tamponare il crollo dei prezzi delle commodities, alzare i tassi – sottraendo di fatto quasi 1 triliardo di dollari dal sistema – è un azzardo enorme.
Oltretutto, la Federal Reserve ha deciso di contrarre la propria politica monetaria mentre Bce, Bank of Japan e Banca centrale cinese stanno ancora stimolando, seppur con modalità differenti: se il dollaro continuerà a salire, la Cina non potrà che svalutare sempre di più, essendo lo yuan legato a un peg con il biglietto verde e a quel punto l’ondata deflazionistica globale andrà a vanificare gli sforzi di chi sta cercando di stimolare inflazione attraverso il Qe. Inoltre, negli ultimi tre cicli di contrazione monetaria, molte Banche centrali hanno seguito rapidamente le mosse della Fed: lo faranno questa volta? Il rischio è che il dollaro continui a salire fino al punto di mandare in stallo l’economia statunitense, tramutando l’America nella vittima finale della deflazione globale che stiamo cercando di combattere da almeno tre anni. C’è poi il rischio che, a fronte di uno stress finanziario montante, i mercati aprano gli occhi e debbano rivedere i propri calcoli: tutti, infatti, si attendono un aumento dei tassi molto graduale, il cosiddetto looser for longer e quindi si prezzano due aumenti nel 2016 e altri due nel 2017 ma il playbook della Fed parla un’altra lingua, visto che tra due anni dovremmo essere al 3,25%.
La Yellen ha bluffato per comprarsi credibilità dopo le molte disillusioni dei mesi passati o l’idea è davvero quella di procedere a quel ritmo? Perché se così fosse, quando i mercati ne prenderanno coscienza partirà la più grossa margin call sul dollaro a livello globale mai vista nella storia. E la Fed cosa dovrà fare? Aprire linee di swap illimitate per tutte le Banche centrali che si troveranno a dover fronteggiare scarsità di liquidità in biglietti verdi: ovvero, si torna alla politica di stimolo in grande stile. Certo, l’ultimo salto del 36% della spesa fiscale cinese potrebbe arrestare o almeno rallentare e stabilizzare il crollo del mercato delle commodities, ma potrebbe essere tardi, visto che venerdì Moody’s ha operato il downgrade di Glencore, il colosso anglo-elvetico delle materie prime a Baa3, appena un gradino al di sopra dell’investment grade e i credit default swaps sul debito a 5 anni implicano ora una probabilità di default del 50%.
E attenzione, se il prezzo del rame dovesse continuare a crollare, Glencore non avrebbe cinque anni di vita, perché partirebbe l’unwind di tutti i contratti finanziari che vedono quella commodity postata come collaterale a garanzia. Per questo Moody’s ha tagliato fino alla soglia del junk ma senza andare oltre, altrimenti quel 50% sarebbe salito esponenzialmente. Viviamo in un mondo dove la ratio debito/Pil a livello globale è del 30% superiore al livello del 2008, tanto che la Banca per i regolamenti internazionali sta lanciando allarmi dopo allarmi al riguardo. Insomma, la Fed non ha margine di errore nel suo processo di normalizzazione dei tassi di interesse, perché ogni singolo sbaglio potrebbe essere il detonatore della bomba del debito su cui sono seduti mercati finanziari, governi e aziende in tutto il mondo, emergenti in testa.
Normalmente, per stabilizzare un crash anche minore di quello del 2008, la Fed ha bisogno di spazio d’azione pari a circa 350 punti base: vorrebbe dire andare in negativo verso territori inesplorati, vorrebbe dire la stagnazione secolare di cui Pier Carlo Padoan si è accorto parlando alla Leopolda e la nascita di un ambiente monetario da Qe infinito. Ovvero, debito a valanga per tamponare i danni creati dal debito precedente. È uno schema Ponzi globale ma Ben Bernanke lo chiamava con il nome esotico di helicopter money, ovvero una manovra di stimolo talmente ampia da sembrare un elicottero che dall’alto getta liquidità senza fine sul mondo intero per finanziare direttamente la spesa fiscale e iniettare liquidità nelle vene del sistema: la follia keynesiana ai suoi estremi.
E attenzione, perché il quadro che sto dipingendo può apparire apocalittico ma potenzialmente è dietro la porta che attende. Venerdì, a un’ora dall’inizio delle contrattazioni, il Dow Jones aveva già perso 500 punti dai massimi post-Fed, con le Fang (Facebook, Amazon, Nike e Google) – ovvero i quattro titoli che stanno mantenendo i corsi rialzisti da un anno a questa parte, a fronte di crolli ovunque – tutte in rosso, il credito al collasso e i rendimenti sui junk bond alle stelle. Ed è quest’ultimo comparto a farmi paura, nonostante l’esposizione attuale delle grandi banche sia minima rispetto ai picchi folli del 2008.
Vi offre qualche numero relativo ai dati settimanali tracciati da Lipper/EPFR relativo al settore del reddito fisso, soprattutto quello ad alto rendimento dopo il blocco dei riscatti da parte di tre hedge funds. Nel settore dei junk bonds si sono registrati outflows per 3,5 miliardi di dollari, il massimo da un anno, mentre altri 3,3 miliardi sono fuggiti dai fondi che gestiscono bond con investment grade, un trend che dura da quattro delle ultime cinque settimane e che rappresenta il secondo peggior risultato da due anni a questa parte. Gli outflows nei fondi che gestiscono debito dei mercati emergenti sono stati pari a 2,2 miliardi di dollari e siamo a 20 settimane di fughe di investitori nelle ultime 21, mentre 1,8 miliardi di dollari sono scappati dai fondi che gestiscono prestiti bancari, il massimo da un anno e 19 settimane in negativo delle ultime 20. Per Bank of America, addirittura, gli outfows dai fondi che gestiscono junk bonds sono stati pari a 3,8 miliardi di dollari la scorsa settimana, il massimo da agosto 2014. Questi due grafici mostrano plasticamente la situazione.
Per il Financial Times, infine, i numeri sono ancora peggiori, visto che gli outflows da mutual funds ed Etf sono stati pari a 5,1 miliardi di dollari, ma parliamo di fondi che gestiscono solo debito investment grade e non ad alto rendimento, settore che per FT ha visto outflows per oltre 3 miliardi di dollari la scorsa settimana. Insomma, la fuga è generalizzata e l’incendio nel comparto obbligazionario junk sta cominciando a propagarsi anche tra i bond “sicuri”. Comincia ad aleggiare paura sui mercati e se per caso quello della Fed si dimostrasse davvero il classico policy error, dimenticate il 2008 perché saremmo davvero nei guai.