Tema: cos’è una “banca di territorio”? Una banca di territorio è una banca che non si comporta come si è invece comportata una banca di Rimini descritta, e giustamente criticata, dal Corriere di Rimini di ieri: Massimo Martini, 46 anni, dal primo aprile scorso socio di un calzaturificio di Riccione, un’azienda con 21 dipendenti, nello scorso settembre, senza lavoro, ha messo in cassa integrazione i dipendenti. Poi ha trovato commesse per 500mila euro. Ha richiamato tutti a lavorare, anzi assumendo altre 4 persone. Ma incasserà non prima di 60 giorni i soldi del primo ordine da 130mila euro. Come pagare gli stipendi? Gli servono subito 25mila euro per le contribuzioni nette. Chiede aiuto alle banche, che glielo negano. Una banca di territorio, conoscendo bene impresa, imprenditore e clientela, gli avrebbe anticipato i soldi salvando l’azienda e i propri crediti. Banche di questo tipo cercansi.
Ma una banca di territorio potrebbe anche essere del genere di quelle che danno (o negano) i crediti in funzione non della conoscenza vera che hanno dell’impresa e dell’imprenditore in quanto tali, ma delle relazioni trasversali con essi: parentela, lobby, peggio ancora interessi comuni. Proprio quel che è accaduto nel caso della Banca popolare dell’Etruria, che tanto filo da torcere sta dando al governo; ma anche nei casi delle altre tre banche commissariate a suo tempo e poi salvate dal discusso decreto-Renzi (Banca Marche, CariFerrara e CariChieti). E soprattutto nei due casi dimensionalmente più rilevanti e, speriamo, meno drammatici: Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca.
Quindi: si dovrebbe concludere che non ha più senso parlare – nell’era della globalizzazione – di “banche del territorio”? Perché se lo sono rischiano di essere un coacervo di intrallazzi e sofferenze non vigilabile? Macché: nella storia economica del Paese, storture si sono verificate nelle piccole come nelle grandi banche, nelle popolari come nelle grandi quotate. Il vero accento andrebbe posto sulla modalità di esercizio della vigilanza, da parte di Bankitalia sulla stabilità e della Consob sulle emissioni di titoli…
Inoltre, quel che fa dibattere con tanta veemenza le forze politiche tra loro e anche con le autorità che regolano, o dovrebbero regolare, il settore è proprio questa diatriba sulla natura del mestiere della banca e su come esercitarlo al meglio nel mondo reale di oggi. Senza derubare i risparmiatori – contrariamente a quanto hanno fatto la Popolare dell’Etruria, Banca Marche e le altre due banche commissariate a suo tempo e ora “salvate” dal discusso decreto del governo; e senza smettere di erogare credito alle imprese, contrariamente a quanto fatto, ad esempio, da quella banca di Rimini.
Chiuso, alla bell’e meglio, il caso delle quattro banche decotte, con gli strascichi politici ancora lungi dal concludersi dell’Etruria, l’epicentro del terremoto si sposta ora in Veneto, “laboratorio” economico-sociale di questa diatriba sulla “natura” della banca di territorio. Quel che è accaduto alla Veneto Banca e alla Popolare di Vicenza – come già, vent’anni va, alla Banca popolare antonveneta, che fu all’origine di tutti i guai del Montepaschi, dopo esservi confluita! – è la più classica delle contaminazioni di interesse tra l’azienda di credito, le aziende clienti e una ristretta “nomenclatura” di buro-bancari locali.
In buona sostanza, il principio di questa contaminazione era semplice: io banca finanzio te, cliente immeritevole, a patto che tu mi ricambi il favore comprando le mie azioni e votando per me al momento di decidere le nomine di potere nel consiglio d’amministrazione e quindi nel management.
Sbaglierebbe, però, chi pensasse che questa formula nasce nelle banche cooperative (le popolari). Al contrario: il “copyright” appartiene a Enrico Cuccia, fondatore e presidente (vero prima e onorario fino alla morte, nel Duemila) di Mediobanca. E la definizione più chiara di questo fenomeno deteriore l’ha data Sergio Siglienti, ex amministratore delegato della Banca commerciale italiana, a lungo rispettato e poi bistrattato da Cuccia: “debitori di riferimento”, li aveva definiti Siglienti, per indicare appunto quei debitori che si ritrovavano paradossalmente nel ruolo di “padroni” della banca dal cui rifornimento finanziario dipendevano.
È quest’anomalia, per capirci, che fu alla radice del fenomeno-Ligresti, un imprenditore non privo di capacità e competenze ma eletto da Cuccia a proprio protetto e, contemporaneamente, a proprio protettore e strumento, finché il crescere di tutti questi ruoli – protetto, protettore e strumento – finì col trasformare il rapporto tra le due realtà, la banca finanziatrice e il debitore-azionista superfinanziato, in una specie di insostenibile incesto da cui, alla lunga – morto Cuccia – è scaturito il dissolversi dell’ex impero ligrestiano.
Quando la Bce ha paracadutato a Vicenza l’attuale e nuovo direttore generale e consigliere delegato Francesco Iorio, il manager si è trovato di fronte a un paesaggio post-apocalittico. Mille clienti, finanziati con manica larga per circa un miliardo di euro, tutti divenuti soci della banca in proporzioni più o meno ampie. Tutta gente che ha visto crollare – anzi sbriciolarsi – a un quinto del valore che aveva sborsato il prezzo delle azioni acquistate per compiacere la vecchia gestione della banca; prezzo peraltro ancora illiquido, cioè tuttora non realizzabile, perché la banca non è ancora quotata in Borsa e il “mercato grigio” che essa stessa creava quando le azioni compravendute erano poche oggi è ovviamente congelato.
Ma la linea di Iorio, avallata in pieno da Francoforte, è quella di non derogare di un millimetro dai propri diritti di creditore, e quindi esigere il rimborso integrale delle linee di credito aperte a questi soci “particolari”; che sono stati quantomeno incauti nel comprare quelle azioni a quel prezzo, e comunque nell’accettare il do-ut-des tra il finanziamento e l’investimento. Altro sarà il caso di coloro, tra questi clienti, che riusciranno a dimostrare di aver subito una specie di estorsione: ma quanti saranno? Chi di essi era davvero costretto ad accettare l’obbligo informale di comprare le azioni in cambio dei fidi? Una sparuta minoranza: la verità è che nella maggior parte dei casi tra banca e cliente si creava un rapporto di collusione, che inquinava tutto il contratto.
Ecco, è questa la geometria malsana che non deve più ripetersi. La trasformazione in società per azioni delle prime dieci banche popolari italiane voluta, per decreto, da Renzi, nulla ha a che vedere con quella specie di “vaccinazione” contro questo genere di malattie che viene rappresentata. Anche in una società per azioni quotata – il caso di Mediobanca e della Banca commerciale di Siglienti lo dimostra – può esserci il malcostume dei “debitori di riferimento”, si tratta – va ribadito – di prevenirlo o reprimerlo con le opportune azioni di vigilanza. Ed è qui che l’ordinamento attuale e la sua esecuzione si sono rivelati inefficienti.
Il futuro di Veneto Banca (che ha vissuto fenomeni deteriori analoghi a quelli della consorella) e della Popolare di Vicenza è oggi alquanto nebbioso. Diventando società per azioni finiranno quasi insensibilmente a gravitare nell’orbita dei pochi investitori istituzionali stranieri che decideranno di restarne soci o di investire in esse ex-novo. Quindi sostanzialmente cambieranno bandiera, forse per il meglio, anche perché per il peggio è difficile. E il prezzo che il sistema-Paese pagherà per questo salvataggio in extremis di altre due banche più o meno decotte sarà la dissoluzione dei loro legami col territorio. Quelli malsani, ma anche quelli sani.