Come ampiamente atteso, le urne spagnole hanno portato allo stallo politico: nessun partito ha guadagnato la maggioranza e anche potenziali governi di coalizione appaiono bloccati sul nascere dai veti incrociati. Il Pp tenta il Psoe per una grande coalizione, ma quest’ultimo chiude la porta, forse in attesa di una mossa dalla Casa reale che porti a un’ipotesi Psoe-Ciudadanos, fino all’azzardo estremo di coinvolgere Podemos in un’ammucchiata di governo, magari attraverso l’appoggio esterno. Fermo qui il mio excursus in merito, visto che non sono un costituzionalista e lascio ad altri ben più preparati di me discutere dei ricaschi interni del caso spagnolo, ovvero della validità o meno dell’Italicum come mossa per evitare l’impasse. Lasciatemi partire però dal vicino di casa della Spagna, ovvero quel Portogallo anch’esso nel mezzo del guado post-elettorale, nonostante si sia votato in ottobre e in pieno esperimento di governo socialista con l’appoggio esterno dei due partiti di estrema sinistra.
Negli ultimi due giorni da Lisbona sono arrivate due notizie che sono passate un po’ troppo sotto silenzio. Da un lato c’è l’operatore telefonico Portugal Telecom, le cui obbligazioni restano sotto pressione e tutto per una partita di partecipate che si sta giocando altrove. Il nodo è il Brasile, più precisamente la possibile fusione tra Oi Brasil Telecom e Tim Participacoes, con il supporto da 4 miliardi di dollari del veicolo finanziario LetterOne del miliardario russo Mikhail Maratovic Fridman, arrivata a un punto morto. Al centro del problema, lo scandalo corruzione che ha travolto la banca Btg Pactual, la quale aveva un ruolo di prima grandezza nell’operazione e l’apertura dell’impeachment contro la presidente Dilma Rousseff. Stando a indiscrezioni, i russi, a questo punto, avrebbe preso tempo in attesa di capire che strada imboccherà il Brasile nelle prossime settimane. Nel frattempo, se la pressione aumenterà, il governo lusitano potrebbe dover supportare la sua azienda chiave, rischiando una bella procedura da parte dell’Ue per aiuti di Stato.
Ma la stessa Ue non ha avuto niente da dire rispetto alla seconda notizia giunta dal Portogallo in questi giorni, ovvero che mentre qui ci si massacrava politicamente su Banca Etruria, Lisbona portava a termine il “salvataggio” di Banif, settima banca del Paese, un’operazione che andava avanti dal 2013. Gli asset buoni saranno venduti al Banco Santander dopo un ricapitalizzazione enorme e a fondo praticamente perduto per una cifra di di 2,25 miliardi di euro, a carico sia del Fondo interbancario portoghese che dei soldi dei contribuenti portoghesi, mentre quelli cattivi in una bad bank, sperando di recuperare qualcosa. Altri assets rimangono poi nei resti di Banif, tra cui le obbligazioni subordinate che sul mercato non valgono nulla e che con tutta probabilità non verranno mai rimborsate, se non per una piccola parte.
Insomma, l’operazione che il furore ideologico di alcune testate italiane vedeva come l’alternativa “buona” al bail-in delle nostre quattro banche territoriali ha comunque lasciato in mutande obbligazionisti subordinati e azionisti di Banif: mettetevelo in testa, questo è il nuovo regime e le tosature del parco buoi rappresentano la sua intelaiatura statutaria. Insomma, il Portogallo è una preda potenziale perfetta per chi volesse speculare o, meglio, innescare pressione sistemica sulla periferia dell’eurozona.
Ed eccoci quindi arrivare alla Spagna e al suo stallo politico, per ora punito in maniera solo simbolica dallo spread, ma pronto a tramutarsi in un detonatore di guai seri se l’ingovernabilità proseguirà a oltranza o se, peggio, ci sarà necessità di tornare alle urne. Anche perché i quattro grafici a fondo pagina ci dicono chiaramente che il famoso “miracolo economico” spagnolo di cui ci hanno parlato eminenti economisti per almeno due anni, di fatto la brochure della bontà delle ricette della Troika, si è sostanziato in questo: debito in traiettoria fuori controllo rispetto al Pil, investimenti esteri che languono e Prodotto interno lordo che rimane ben al di sotto del livello pre-crisi del 2009. Insomma, un miracolo da prestigiatore di fiera del paese.
Il problema è che Spagna e Portogallo sono strettamente connesse, non fosse altro per l’esposizione bancaria della prima sul secondo, quindi creano un nexus di debolezza molto pericoloso, cui va a unirsi quella Grecia che l’altro giorno ha voluto gettare fumo negli occhi a suoi cittadini varando le nozze gay e il riconoscimento dello Stato palestinese, ma che con l’anno nuovo avrà ancora a che fare con i creditori e con la ricerca disperata di un taglio dello stock di debito, precondizione posta dal Fmi per partecipare al terzo salvataggio. Lunedì la Borsa di Madrid è crollata del 3%, trascinata al ribasso dai titoli bancari, molto sensibili al 20,7% dei consensi ottenuti da Podemos e dalle sue ricette radicali, una su tutte la ristrutturazione del debito sovrano. Pablo Iglesias, il suo leader, è stato molto netto nelle prime dichiarazioni dopo il voto: «Il nostro messaggio all’Europa è chiaro. La Spagna non sarà mai più la periferia della Germania, noi combatteremo per recuperare il significato della parola sovranità per la nostra nazione».
Ma come vedono questa situazione gli strategist? Partiamo dal guru internazionale dell’obbligazionario sovrano, Nicholas Spiro, a detta del quale «la fatica che la spirale dell’austerità ha generato nel Paese è stata enorme e questo ha portato a un chiaro slittamento a sinistra. Ora il nuovo argomento sul tavolo è se la Spagna sia governabile. Tutti i partiti sono inchiodati sulle loro posizioni e questo potrebbe portare a uno stallo di settimane, situazione da cui io non vedo una via di uscita sostenibile. Una cosa è certa, possiamo scordarci un percorso di riforme». E ancora: «La Spagna ha già vissuto un drammatico deterioramento delle finanze pubbliche sottostanti negli ultimi diciotto mesi, anche se la gente si è fatta abbindolare da un rimbalzo ciclico che è dovuto soltanto a basso prezzo del petrolio ed euro debole garantito dall’operato della Bce. Semplicemente, non hanno crescita, sono fattori esogeni e ciclici». Addirittura per Yvan Mamalet di Societe Generale, «il potenziale di crescita della Spagna è sceso a un tasso dell’1% dal oltre il 3% di prima della crisi, chiaro segnale di quanto danno abbiano arrecato all’economia del Paese gli effetti dell’isterismo dell’austerity basato su disoccupazione di lungo termine e mancanza di investimenti».
In effetti, la ratio debito/Pil è al 100% e sta avvicinandosi al limite di sicurezza per una nazione che non ha la chiave valutaria nella sue mani ma in quelle della Bce: «La Spagna ha uno spazio fiscale molto limitato e ogni shock esterno potrebbe portare il debito oltre i livelli di sostenibilità, ovvero in area 130%», conclude Mamalet.
Accidenti, un gran bel risultato per la Troika, la quale ci ha spacciato il modello iberico come soluzione alla crisi degli altri Paesi indebitati: certo, la crescita è rimbalzata, ma la produzione è ancora del 5% inferiore al picco precedente e certi sbilanciamenti macro non sono stati affatto toccati. Lo certifica anche il Fondo monetario internazionale quando parla di “deficit strutturale” salito dall’1,8% dello scorso anno al 2,5% attuale, il tutto in un contesto che vede la Spagna a -90% del Pil nella classifica della posizione di investimento internazionale netto, ben al di sotto della soglia di sicurezza del 30%: per il Fondo, «persistono profondi problemi strutturali e vulnerabilità». Complimenti alla Troika per il suo Frankenstein.
Sempre il Fmi ha avvertito che la Spagna necessita di riforme radicali della legislazione del lavoro per innalzare i bassi livelli di produttività e aumentare la catena del valore, citando il «ribaltamento delle riforme compiute in passato» come il rischio chiave. E l’impasse politica attuale ci dice che potrebbe essere non troppo peregrina come ipotesi, quest’ultima, soprattutto se Podemos venisse in qualche modo cooptata in una compagine di governo.
Insomma, il rischio maggiore che le elite economiche e politiche europee possano compiere è quello di continuare a spacciare – più o meno in malafede – un modesto rimbalzo ciclico dell’economia spagnola per qualcosa di più profondo che in realtà non esiste. Certo, c’è stato il boom dell’export garantito dal mercato automobilistico, ma solo perché i marchi francesi hanno varcato il confine per aprire impianti in Spagna e beneficiare dei tagli salariali, i quali nel caso dei neo-assunti sono nell’ordine del 27% negli impianti di Valladolid. Io la chiamo guerra tra poveri, non austerity o produttività, anche se nei salotti buoni o tra gli economisti illuminati queste definizioni fanno rabbrividire e ti garantiscono immediatamente la patente di “comunista”. Se poi uno va a prendere l’eliminazione del deficit di conto corrente, scopre che la domanda interna è collassata del 12% e l’import la segue: come fa una nazione a bilanciare i suoi conti con un tasso di disoccupazione al 22% e dati macro simili?
Di più, le difese dell’economia spagnola sono largamente esaurite e in caso di nuovo ciclo ribassista o attacco speculativo sarebbe la prima a cadere, trascinando immediatamente con sé il Portogallo e di riflesso la Grecia che festeggia le nozze gay come grande riforma strutturale. Se lunedì lo spread è salito solo di 10 punti base è perché resiste lo scudo della Bce, ma se in Spagna pensano di poter giocare troppo la carta della sovranità e dell’esito democratico delle urne, anche a Francoforte potrebbero essere tentati di inviare un segnale: basta rallentare un po’ gli acquisti pro quota ex Banca di Spagna e il segnale sui radar di chi opera sui mercati sarà chiaro e inequivocabile. E trattandosi di un Paese con impalcatura macro debolissima, la scommessa ribassista non sarebbe così peregrina.
Attenzione, da qui a marzo potrebbero accadere cose insospettabili. Anche in Italia e l’attacco a freddo di Draghi contro le dinamiche occupazionali in Italia della scorsa settimana, di fatto una bocciatura ufficiale del Jobs Act, potrebbe non essere che il primo avviso. Non a caso, Matteo Renzi ha immediatamente reagito dando vita a una polemica in sede europea con la Merkel: la luna di miele tra premier e poteri forti sta finendo? Molti segnali mi dicono di sì. Attenzione.