L’Italia nell’Unione europea non tocca palla e questa non è una novità assoluta, ma adesso siamo arrivati al punto in cui il nostro Paese viene chiaramente penalizzato. Non è stato sempre così. Lo stesso governo Renzi ha goduto di una lunga luna di miele, ma nei mesi scorsi il clima è cambiato. Il rinvio a marzo del voto sulla legge di stabilità è stato celebrato a Roma come un successo, anche se a Bruxelles era chiaro a tutti che si trattava di terribile spada di Damocle. Del resto, l’Italia è stata via via bocciata su tutto, dagli immigrati alle tasse, dall’Ilva alle banche. Per non parlare del debito e della spesa pubblica. Adesso viene messo sotto tiro anche il Jobs Act o meglio i suoi scarsi effetti sull’occupazione, modesti perfino rispetto alla Grecia. E la critica piove non dalla Commissione europea, ma dalla banca centrale.



La gogna c’è, inutile negarlo. Di chi è la colpa? Sarebbe facile dividere in tre le responsabilità, più o meno alla pari tra l’arroganza dell’eurocrazia, la faciloneria di Renzi e i mali endemici che il Paese si porta dietro e non riesce mai ad affrontare. Ma c’è anche dell’altro. C’è che da tempo l’Italia non fa politica europea, gioca di rimessa, reagisce non agisce, è di volta in volta succube e ribalda. È succube perché mugugna, ma finisce per subire tutti i diktat alimentando un infruttuoso malumore. È ribalda quando pensa di poter far da sola, bypassando le regole, senza avere idee e alleanze su come cambiarle.



Per evitare il duplice errore ci vorrebbe una linea di condotta chiara, sostenuta da un voto del Parlamento, in modo che sia evidente a tutti che esiste un interesse nazionale. Sui rifugiati, ad esempio, non basta difendere la generosità patria e poi chiedere una strategia europea, bisogna avere una propria politica nazionale mettendo l’Ue di fronte alle sue responsabilità dopo aver affrontato le nostre, ciò vuol dire una seria capacità di controllo dell’immigrazione illegale e strumenti, strutture, politiche di vera integrazione.

Un altro punto discriminante sul quale occorre andare a Bruxelles con una linea davvero nazionale riguarda le banche. I salvataggi a carico dei contribuenti sono sbagliati, ma la bad bank va fatta, è nell’interesse dell’Italia ed è un contributo a risolvere problemi che non sono solo nazionali. Si è spesa la Banca d’Italia e il progetto ha il consenso anche di Mario Draghi. Il ministro Padoan ci lavora da un anno: gli eurocrati disfano di giorno la tela che lui tesse di notte. È il momento di dire basta. Questa è una priorità sulla quale si gioca la nostra dignità.



Sulla politica di bilancio non abbiamo tutte le carte in regola perché Renzi ha liquidato la spending review e ha ignorato esplicitamente l’invito a tagliare la spesa, abbassare le imposte sul lavoro e ridurre il debito. La flessibilità chiesta dal governo è stata interpretata, non senza ragioni, come volontà di dilazionare per malcelato intento elettorale. Ma sulle banche l’Italia ha ragione da vendere. Non solo perché ha impiegato 4 miliardi dei contribuenti contro i 247 della Germania (la Merkel può sempre dire che poteva permetterselo), ma perché sta mettendo in piedi un modello di risoluzione di una crisi sistemica. Il credito in Europa ristagna, le banche sono bloccate dal marcio celato nei loro bilanci (Deutsche Bank insegna) e non sono stata sbloccate nemmeno dall’alluvione di denaro liquido piovuto dalla Bce.

Per fare questo ci vuole unità e consenso politico interno. Troppo spesso ministri o alti funzionari sono andati a Bruxelles improvvisando, senza avere la necessaria copertura. Quando parla un francese, sia esso un grand commis o un membro del governo, si suppone abbia dietro l’Eliseo, quando parla un italiano viene subito smentito in patria; come può essere preso sul serio dalle cancellerie europee? Sulle nostre divisioni sono sempre passasti gli stranieri e Renzi non è nemmeno Pier Capponi.