Chissà in base a quale criterio i 42 senatori del Pd che hanno proposto la commissione parlamentare d’inchiesta su banche e vigilanza hanno scelto di cominciare dal 2000. La data, in ogni caso, non sembra sbagliata per una “narrazione ufficiale” di come Bankitalia e Consob hanno sorvegliato il sistema creditizio fino al “caso Etruria & C.” Il 23 giugno 2000 muore Enrico Cuccia ed è allora, senza alcun dubbio, che la storia bancaria italiana passa da un “prima” a un “dopo”, dallo “ieri” all'”oggi”.



E’ allora che la Banca d’Italia di Antonio Fazio rompe con una doppia tradizione di vigilanza: poco proattiva nello stile e sostanzialmente conservativa degli equilibri esistenti sul mercato fra la cosiddetta “finanza laica” e quella cosiddetta “bianca”. A euro già nato, a globalizzazione finanziaria galoppante, sono però categorie datate e in fondo Fazio ne trae per primo le conseguenze quando Mediobanca perde il suo leader storico. Bankitalia ha protetto la Mediobanca di Cuccia fino all’ultimo: frenando le due Opa di UniCredit su Comit e di SanpaoloImi su Bancaroma.



Ma senza più Cuccia – ultimo “intoccabile” perfino da Via Nazionale – il governatore si autodesigna garante del futuro dell’unica banca d’affari italiana: cassaforte delle Generali e del Corriere della Sera e fresca co-vincitrice dell’Opa Telecom. Quando tuttavia la “nuova vigilanza” di Fazio si muove è già tardi: o meglio, Bankitalia si ritrova a giocare – certamente non più da arbitro – una partita già iniziata e forse già decisa.

Vincenzo Maranghi – delfino di Cuccia e amministratore delegato di Mediobanca – ha già “auto-scalato” l’istituto attraverso un gruppo di soci francesi capitanato da Vincent Bolloré (che nell’autunno 2015 è divenuto azionista di riferimento di Telecom). Come soono riusciti Maranghi e i suoi alleati francesi a nascondere l’acquisto del 20% di Mediobanca alla Consob? Ecco una prima domanda che – nel caso – piacerebbe fosse posta dalla commissione d’inchiesta all’Autorità di Borsa: anche se il presidente di allora – l’economista Francesco Spaventa, storicamente legato sia al Pci che ai circoli anglosassoni – è nel frattempo scomparso.



Fazio invece è ancora vivo. E’ in silenzio da nove anni: da quando è stato obbligato a dimettersi per un avviso di garanzia per “abuso d’ufficio”: per aver vigilato male, in modi controversi, sulla guerra bancaria dell’estate 2005 (AntonVeneta contesa fra l’olandese Abn Amro e Popolare di Lodi; Bnl fra lo spagnolo Bbva e Unipol-immobiliaristi romani; Rcs fra patto Fiat-Mediobanca e “cordata Ricucci”). Condannato due volte in Cassazione, Fazio non ha mai “narrato” per davvero: né quelle vicende, né quelle precedenti e tanto meno quelle successive (il governatore italiano, euroscettico e diffidente della turbo-finanza – aveva lanciato fra i primi l’allarme sui rischi poi deflagrati nel 2008). Fra i capitoli che – forse – la commissione d’inchiesta sarà chiamata a riscrivere spicca comunque certamente la lunga “guerra di Mediobanca-Generali”: culminata con la cacciata di Maranghi e la fine dell’istituto e anche delle sue peculiari funzioni di “vigilanza da Milano” sul sistema bancario.

Non meno rilevante è stato – quasi negli stessi mesi – il crack Parmalat: così simile – nelle conseguenze per i risparmiatori che avevano comprato obbligazioni – al caso di Banca Etruria, che ha riacceso polemiche violente sul ruolo delle banche nel vendere prodotti finanziari e sulll’esercizio della vigilanza sugli intermediari. E’ stato il caso Parmalat a innescare un’onda lunga nei rapporti fra banche e vigilanti: anzitutto lo scontro fra Fazio e il Tesoro di Giulio Tremonti (altro “convitato di pietra”, virtualmente già convocato a pressocché tutte le sedute dell’ipotetica commissione). Già nel 2001 aveva varato una pesante contro-riforma delle Fondazioni bancarie, poi rovesciata dall’Acri di Giuseppe Guzzetti (altro protagonista probabilmente già al lavoro sui suoi memorandum 2000-2015).

Altri, comunque, potranno o dovranno raccontare la loro versione di quei primi “anni duemila”. Lamberto Cardia, il più longevo presidente della Consob. Ma anche Francesco Greco, oggi candidato a procuratore capo di Milano. E’ stato lui nell’estate 2005, a intercettare Fazio sulla base di un’ipotesi di reato appena nata (abuso di mercato) e a sequestrare poi il pacchetto di controllo di AntonVeneta alla Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, per “rivenderlo” d’autorità ad Abn Amro. Lo stesso Guido Rossi, presidente della Consob ai tempi del crack Ambrosiano e poi senatore della Sinistra Indipendente, difficilmente eviterebbe una convocazione: la vendita di Bnl a BnpParibas, strappata per via giudiziaria a Unipol, è avvenuta nel suo studio.

Quei mesi non meno turbolenti di quelli correnti,  produssero in teoria un modello di super-authority unica sulla finanza, poi accantonata; in pratica una “legge sul risparmio” (che fine ha fatto?…) e soprattutto la chiamata al vertice Bankitalia di Mario Draghi, vicepresidente esecutivo di Goldman Sachs per l’Europa. Una scelta di fatto orientata dall’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (che difficilmente potrà testimoniare) e accettata dal premier Silvio Berlusconi e da Tremonti. Inizia nel 2006 il rapporto lungo e complesso fra Draghi e Berlusconi-Tremonti, culminato nella drammatica del 2011: cioé quando comincia la vera “crisi bancaria” italiana: con lo spread a 575 e il primo stress-test Eba (guidata dall’ex funzionario Bankitalia Andrea Enria) che riserva alle banche italiane la prima di una serie di bocciature e ultimatum dall’Europa (gli ultimi quelli sulle risoluzioni di Etruria &C e sulla “bad bank” per ripulire i bilanci dalle sofferenze accumulate dalla recessione).

 

Al pari di Fazio, Draghi sarebbe il protagonista annunciato di quello che il premier Matteo Renzi si terrà invece probabilmente in tasca come arma politica deterrente o di ultima istanza (magari derubricando all’ultimo l’iniziativa a “commissione d’infagine”). Al Draghi “italiano” (2006-2011) verrebbe imputata – nel format di “processo popolare” – soprattutto l’autorizzazione a Mps all’acquisto di AntonVeneta dal Santander: senza cautele, per cassa, a un prezzo esorbitante (9,3 miliardi) anche al netto di un miliardo di “spese e commissioni d’acquisto” che hanno fatto arricciare molti nasi (ma non quelli della vigilanza e neppure della magistratura senese). Il crack del Monte – di fatto estraneo al collasso della finanza derivata – comincia da lì. Al governatore Draghi potrebbero essere chiesti dettagli su altre vicende puntuali: ad esempio il virtiale salvataggio di Capitalia presso UniCredit e l’indulgenza concessa con l’ex presidente Cesare Geronzi, a lungo presidente sia a Mediobanca che in Generali (Geronzi ha subito proprio negli ultimi giorni l’ennesima di una lunga serie di condanne per reati finanziari). ma – a leggere una “micro-narrazione” nota inedita e imbarazzata che compare da alcune settimane sul sito Bankitalia – nel quinquennio di Draghi a Palazzo Koch, la vigilanza ha chiuso almeno un occhio sulla Popolare di Vicenza. E la fretta con cui il premier Renzi invoca la riforma del Credito cooperativo – fa da contrappunto a un sostanziale disinteresse Bankitalia, inaugurato da Draghi, per i problemi ma anche per i progetti delle Bcc.
Chissà mai se il “romanzo” della vigilanza bancaria italiana nel ventunesimo secolo verrà mai scritto. Di certo la sfilata dei protagonisti sarebbe uno spettacolo da non perdere.