Le Fondazioni di origine bancaria entrano in un nuovo anno, il venticinquesimo della loro vita. È, una volta di più, un anno dalle prospettive incerte, non preventivate. Entro il quarto di secolo, nel disegno della legge Amato-Carli del 1990 e poi della legge Ciampi-Pinza del 1999, gli enti avrebbero dovuto completare la migrazione dal ruolo di azionisti di controllo di banche a quello di “pilastri della sussidiarietà”: investitori istituzionali impegnati a gestire bene il loro patrimonio sul mercato finanziario e a indirizzare altrettanto bene i profitti per interventi no-profit sui loro territori.



La realtà è stata e resta puntualmente diversa: e non per responsabilità principale delle Fondazioni. Il 2015 si chiude comunque sotto un cielo nuvoloso: più quello che, in primavera, aveva salutato la sigla dell’Atto negoziale fra Acri e ministero dell’Economia. Giuseppe Guzzetti e Piercarlo Padoan hanno firmato un’autoriforma scritta dalle stesse 88 sorelle dell’Acri. Un passo con il quale gli enti e il loro vigilante hanno tratto le conseguenze dei momenti di crisi che – all’interno di quella finanziaria globale e di quella recessiva italiana – avevano fatalmente colpito anche le Fondazioni.



I dissesti di Mps e Carige – le due ultime grandi banche rimaste sotto il controllo di un ente – esigevano in particolare una risposta a cui Guzzetti e gli altri leader del sistema non si sono sottratti: il tetto a un terzo del patrimonio per l’investimento principale in banca e le auto-limitazioni all’acquisto di prodotti di finanza derivati e all’indebitamento hanno interpretato in modo flessibile l’esigenza di confermare sia gli indirizzi di lungo periodo della regulation, sia le correzioni di rotta imposte dall’attualità. Egualmente, la traduzione in vincoli statutari stringenti degli input della “Carta delle Fondazioni”, varata nel centenario Acri, hanno alzato ancor più i muri della governance, soprattutto contro il rischio di porte girevoli fra Fondazioni e politica.



La fine dell’anno ha visto tutti i versanti critici del sistema-Fondazioni tornare sotto i riflettori. Le quattro “risoluzioni” bancarie di fine novembre hanno alzato un polverone soprattutto su Banca Etruria: l’unica Popolare coinvolta nella “rottamazione” decisa da governo e Bankitalia. Ma le altre tre (CariFerrara, CariChieti, Banca Marche, senza dimenticare la ristrutturazione di Tercas) erano banche controllate da Fondazioni: e sono sette gli enti andati in crisi in scia alle banche che controllavano assieme ad azionisti privati. Non è un caso che il primo ruggito contro una gestione “ottusa” dei dossier (a Bruxelles ma non solo…) sia giunto proprio dall’Acri, prima che il suicidio di un pensionato di Civitavecchia facesse scoppiare l’emergenza-risparmiatori.

Se la polemica strettamente politica – e quella su Bankitalia e Consob – ha poi apparentemente allontanato i fari dalle Fondazioni, non c’è dubbio che l’arcipelago Acri sia tornato suo malgrado al centro di uno scacchiere turbolento: come del resto in altri passaggi forti per il sistema-Paese. Da un lato le “risoluzioni” hanno ricaricato le armi degli avversari degli enti: convinti da sempre che dovrebbero essere recisi tutti i legami fra Fondazioni e banche. L’ipotesi – ricorrente – di interventi drastici non era del tutto remota all’inizio dell’anno, nei giorni della riforma-blitz sulle Popolari. Solo l’autorevolezza, l’esperienza politica e la pazienza di Guzzetti hanno riportato il dossier sui binari dell’autoriforma. Ma lo showdown autunnale sulle banche e la quasi-rottura fra autorità italiane e comunitarie hanno rilanciato i timori: soprattutto perché a dubitare da tempo sulla natura di investitori privati delle Fondazione sarebbe la stessa commissaria danese all’Antitrust Margrethe Verstager, la stessa dei niet ripetuti a Roma su salvataggi e bad bank.

Come se non bastasse le Fondazioni sono ora invocate a gran voce – anche da voci insospettabili in Italia – perché tornino a investire o come minimo non disinvestano in banca: ad esempio nelle nuove Popolari Spa, che devono rimettersi in piedi, aggregarsi, dotarsi di nuclei stabili. E poco conta se sia il governatore del Veneto Luca Zaia a chiedere sostegno in termini perentori ai CariVerona e CassaPadova per Popolare di Vicenza o Veneto Banca; oppure se sia Ubi Banca – terzo gruppo del Paese, già trasformato in Spa – a chiamare al centro del momentaneo “nocciolo duro” Fondazione Cuneo e Monte di Lombardia. Nel frattempo la Cariplo di Guzzetti ha già compiuto un passo più che simbolico: partecipando alla ricapitalizzazione della Cassa di Bolzano a fianco della Fondazione locale. Ma il presidente dell’Acri non perde occasione per ricordare il ruolo decisivo di tutte le grandi Fondazioni nel supporto patrimoniale ai due campioni nazionali, UniCredit e Intesa Sanpaolo sotto l’urto della crisi finanziaria globale.

Mentre il sistema bancario e quello delle Fondazioni resistono a nuove scosse, l’Acri si accinge ad affrontare una delicata transizione. Già lo scorso giugno, al congresso Acri di Lucca, Guzzetti aveva annunciato la volontà di ritirarsi non appena l’Atto negoziale fosse stato recepito negli statuti delle associate. L’invito ad affrettare le operazioni societarie entro la fine del 2015 è parso ribadire l’intento. Tuttavia, a poche settimane dagli appuntamenti primaverili dell’Associazione, non c’è toto-nomine. Non che di nomi non ne siano circolati: ad esempio quello del presidente dell’Ente CariFirenze Umberto Tombari, vicinissimo al premier Matteo Renzi (nel suo studio ha fatto pratica legale il ministro Maria Elena Boschi). Ma si è parlato anche del presidente della Fondazione Cassa Forlì, Roberto Pinza: la sua firma è associata a quella del presidfente emerito della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, in quella che resta tuttora la “legge delle Fondazioni”.

Un mese fa, ad ogni buon conto, il Credito cooperativo ha rinnovato fiducia piena ad Alessandro Azzi, che si era presentato formalmente dimissionario all’assemblea Federcasse: anche chi, all’interno del mondo Bcc non era d’accordo con l’impostazione data da Azzi all’autoriforma ora sul tavolo del governo, ha ritenuto in questa fase irrinununciabile il profilo forte del presidente uscente.