Ci siamo, la due giorni più attesa dell’anno – anzi, degli ultimi anni – sta per avere inizio: oggi si riunirà il board della Bce per decidere su tassi e ampliamento del Qe, mentre domani a Vienna si terrà il meeting dell’Opec per decidere sui livelli di produzione. Insomma, scelte che contano. Ma concentriamoci sulla Banca centrale e le sue – probabili – mosse odierne. Proprio ieri la stima preliminare di Eurostat ha certificato che l’inflazione dell’area euro è rimasta stabile allo 0,1% annuo a novembre, un livello al di sotto del consenso degli economisti (+0,2% su base annua) e ben lontano dal valore obiettivo della Bce, che vuole un carovita vicino al 2%. Di fatto, uno sprone a Draghi affinché agisca subito, visto che il dato più allarmante riguarda l’inflazione core, che è scesa allo 0,9% dall’1,1% di ottobre (consenso +1,1% anno su anno), a causa di un debole aumento dei prezzi dei servizi e dei beni manifatturieri. 



Il trend inflativo indica che le pressioni al rialzo sui prezzi si stanno di nuovo indebolendo, nonostante gli sforzi della Bce. La tendenza alla debolezza dell’inflazione trova conferme nel nuovo calo dei prezzi alla produzione dell’industria: sempre a detta di Eurostat, a ottobre hanno segnato un -0,3%. Si tratta del quarto mese consecutivo di contrazione. Il rischio è forte perché le aspettative del mercato sono alte e comprendono un taglio del tasso di deposito di 20-25 punti base e l’espansione del programma di acquisti, in primo luogo ampliando la platea dell’eligibilità ai cosiddetti bond municipali, ovvero emessi da città o regioni come i Lander tedeschi. 



Sebbene la Bce, durante il mandato di Draghi, sia stata generalmente in grado di raggiungere o superare le aspettative del mercato, la questione potrebbe essere diversa questa settimana, avvertiva ieri Larry Hatheway, capo economista di Gam, attraverso Cnbc. La crescita nell’Eurozona si è infatti stabilizzata da quando Draghi ha annunciato il suo programma di acquisti a ottobre e mentre il tasso d’inflazione rimane ben al di sotto dell’obiettivo di Francoforte, gli effetti di base suggeriscono una qualche accelerazione nei prossimi mesi: «Personalmente, non mi sorprenderebbe assistere a un taglio più modesto di 10 punti base dei tassi di deposito e a un’estensione del programma di acquisti oltre settembre 2016, una combinazione che molto probabilmente deluderà i mercati, ma che potrebbe anche supportare l’euro e alleviare, per adesso, una fonte di forza per il dollaro», prevedeva Hatheway. 



Ieri, dopo la diffusione del dato sull’inflazione Ue, l’euro è sceso a 1,058 dollari. Molto, in effetti, ruota intorno al dollaro. Se la Bce supererà le aspettative di acquisto del mercato questa settimana e la Fed porterà a termine il suo percorso con un rialzo dei tassi a metà dicembre, logica vuole che il dollaro continuerà a rinforzarsi: «E questo potrebbe essere un problema da molti punti di vista. Gli investitori si stanno già chiedendo quando un renminbi più debole potrebbe alimentare le preoccupazioni in merito a svalutazioni competitive in Asia, impattando sugli altri emergenti», osservava sempre il capo economista di Gam. E vi ricorderete come nel mio articolo di lunedì vi abbia messo in guardia dal fatto che già oggi l’operatività di mercato delle aziende Usa sia fortemente penalizzata dalla sovravalutazione del biglietto verde, quindi la Fed dovrà pensare bene alle proprie mosse. Inoltre, la combinazione di un dollaro forte e una decisione dell’Opec di lasciare invariata la produzione a 30 milioni di barili al giorno potrebbe spingere ancora più in basso i prezzi degli energetici e delle altre materie prime. 

E qui sorgono due domande: primo, fino a che punto un livello di tassi più alto negli Stati Uniti, un dollaro forte e una debolezza nei prezzi delle materie prime potrebbero portare un ulteriore stress in settori indebitati produttori di materie prime, compresi segmenti dell’high yield americano, varie valute emergenti o credit default swaps sovrani? Secondo, quando quest’ulteriore stress potrebbe portare a una più ampia debolezza di mercato, mettendo potenzialmente in discussione la normalizzazione della politica monetaria della Fed? Il problema è uno solo: le Banche centrali, con il loro programma di Qe, sono in trappola. Hanno infatti cominciato a comprare bonds in base alla teoria che questo avrebbe stimolato l’economia attraverso l’iniezione di denaro. Ma ci sono delle criticità in questa interpretazione, prima delle quali quella che non si stimola l’economia iniettando liquidità se questa non raggiunge i consumatori, dinamica che è in atto oggi. E di fatto la Bce ha voluto forzare proprio la sua azione, spingendo i tassi di deposito in negativo, al fine di punire risparmiatori e consumatori per il fatto che non spendevano il loro denaro: peccato che quel denaro non sia mai arrivato nel loro portafogli! 

È questo l’enorme inganno insito in tutta l’operazione e sono quasi certo che Draghi ne è conscio, anche perché il grafico a fondo pagina ci mostra come se il livello invalicabile del negativo, il Rubicone dei tassi in Europa, sia il -0,75% della Svezia, la Bce non ha particolare possibilità e ampiezza di movimento ulteriore dal livello attuale di -0,20%. I tassi in negativo sono una tassa sul denaro, un qualcosa che va di pari passo con la volontà di eliminazione del contante: la gente porta via i soldi dalla banca per non essere punita e allora scattano le limitazioni sul contante per forzare il proprio obiettivo e arrivare a una spesa generalizzata giocoforza. Capite da soli che è semplice delirio, perché cercare di gestire l’economia da un livello macro senza considerare il flusso di capitale all’interno del sistema lastrica la strada verso il disastro. 

C’è poi un’altra criticità, ovvero il fatto che il processo di Qe in cui sono impegnate le Banche centrali a livello globale non ha un effetto reverse, ovvero non c’è la possibilità di rivendere quel debito acquistato sul mercato, perché così facendo si distrugge il concetto originale di creazione di un’offerta di valuta elastica. Tutto ciò che possono fare le Banche centrali a questo punto è detenere il debito acquistato fino a maturazione e farlo poi sparire, perché se mai dovessero solo tentare il processo opposto la reazione di panico dei mercati porterebbe i tassi reali al rialzo immediato. 

Ecco perché le parole e le azioni di Mario Draghi oggi hanno un’importanza fondamentale: non tanto per i risultati concreti che porteranno, ma per le aspettative altissime del mercato, le quali se verranno deluse renderanno visibile a tutti il fallimento del Qe europeo. E una volta che la parola sarà pubblica, i mercati la prezzeranno di conseguenza. Insomma, quello che deve raggiungere oggi Mario Draghi è un altro effetto “whatevere it takes”, deve tornare a essere il pifferaio magico per convincere i mercati, altrimenti le armi a sua disposizione diventeranno poche e anche caricate a salve in molti casi. 

 

Anche perché il primo e il secondo grafico a fondo pagina ci mostrano quali siano i due Paesi che pagherebbero il conto maggiore a una politica di tassi di interessi negativi: Germania e Francia, quindi difficilmente la Bce potrà imporre la sua ricetta senza essere molto convincente. O senza mettere sul piatto una contropartita a cui non si può resistere. Il secondo grafico, in special modo, ci mostra come una potenziale eliminazione del floor, ovvero del limite di rendimento negativo per l’eligibilità dell’acquisto di un asset, amplierebbe il valore di mercato elibigile sia tedesco che francese, offrendo alla Bce maggior fornitura di bonds da acquistare anche in caso di aumento del volume mensile ma abbasserebbe però la maturità media di quel debito, sia per la Bundesbank che per la Banque de France. 

Il problema però è serio, perché i 60 miliardi di acquisti al mese dal marzo di quest’anno al settembre del 2016 non sono sufficienti per stimolare un’inflazione attorno al 2%, stante un complesso di acquisto pari a 582 miliardi di euro contro un piano programmato di 1,1 triliardi. Così facendo non si è ottenuto altro che un po’ di sollievo sui mercati del credito, ma con le sofferenze sempre in crescita per il sistema bancario il meccanismo in atto è grippato: ovvero, il timore degli istituti di credito è maggiore della fiducia che hanno nella bontà del piano di Draghi e di conseguenza tengono i rubinetti chiusi nei confronti dell’economia reale. Draghi deve, prima o poi, varcare il suo Rubicone, perché l’ultimo grafico, ci mostra come ci siano già oggi bond eligibili all’acquisto per maturazione per un controvalore di 453 miliardi euro che tradano però con rendimento inferiore a -0,3%. 

Draghi ingaggerà questa ennesima, definitiva battaglia con la Bundesbank o dovrà ammettere di aver fallito, sperando che la Fed non alzi i tassi a dicembre e calci il barattolo ancora per un po’, garantendo un minimo di sollievo a tutto il mondo? Il problema è che se la Fed non alza i tassi e manda al mondo intero il messaggio che non se ne parlerà fino alla fine del 2016, l’unico effetto positivo ottenuto finora dalla Bce con il Qe, ovvero la svalutazione dell’euro sul dollaro, rischia di svanire. E uno shock valutario rialzista schianterebbe del tutto ogni minimo segnale di ripresa economica nell’eurozona. Ora la questione diventa davvero seria.