Se c’è una cosa su cui Renzi dice la verità, questa è il “senso” del decreto salva-banche che ha fatto tanto scandalizzare per l’asserito conflitto d’interessi della Boschi. Eppure, contemporaneamente, se c’è una cosa su cui Renzi non ha capito niente e sta sbagliando tutto è la crisi attuale e prospettica del sistema bancario italiano. Meglio sarebbe stato se l’ipercinetico e iperottimista presidente del Consiglio avesse maggiormente riflettuto, e maggiormente riflettesse, sul tema: uno dei più complessi che gli sia finora toccato di gestire, troppo profondo forse per gli strati superficiali del reale sui quali tanto la sua ipercinesi quanto la sua acerba formazione tendono a mantenerlo.
Il decreto col quale il governo ha pilotato il “salvataggio” delle quattro banche commissariate da parte del sistema bancario – e l’accollo al sistema stesso delle perdite accusate da varie categorie di coinvolti – è stato utile. Lasciar andare le cose per il loro corso naturale avrebbe comportato, questo è vero, maggiori perdite per altre categorie di risparmiatori poco protetti (o nulla). Quanto alla Boschi e a suo padre, nessun conflitto d’interessi. È e resta antiestetico che la ministra sia rimasta al suo posto e abbia sbandierato, non senza la sua assertiva protervia da capoclasse, la completa estraneità dagli aspetti inquietanti della vicenda dopo che qualche mese fa, per vicende di analoga inconsistenza, il coro muto del “giglio magico” concorse a suggerire a Maurizio Lupi, apprezzato (e competente: forse è questo l’handicap) ministro delle Infrastrutture, di rassegnare le dimissioni. Ma le sorti della Boschi, mera esecutrice calligrafa del dettato del Capo, sono veramente irrilevanti rispetto a questo tema e in genere alle vicende del governo.
Il dato vero oggi è che di banche – anzi: “anche” di banche – è chiarissimo che Renzi non capisce assolutamente nulla. E non c’è da biasimarlo, per questo: la materia è complicata e confusa, stretta – anzi, quasi stritolata – da almeno tre gravissimi problemi: la crisi di ricavi indotta dal calo dei tassi; la crisi dei sovracosti causata dal boom dell’utilizzo di internet da parte della clientela, che rende inutili le filiali e chi ci lavora, costringendo le banche a continue e onerose ristrutturazioni (il credito non può usare la cassa integrazione!); la crisi delle sofferenze, dovute certo in qualche caso a imperizia dei banchieri nell’erogare credito, ma anche e soprattutto alla crisi economica di otto anni che ha affossato tante, troppo piccole e medie aziende italiane. Tutto ciò crea per le banche una situazione di difficoltà senza precedenti, acuita ulteriormente dalla normativa europea sempre più gravosa ed esattiva, che toglie loro risorse di tasca senza concedere alcun nuovo filone di business, anzi di fatto inibendone molti di tradizionali.
Di fronte a questo tsunami, cosa fa Renzi? Se la prende con le banche popolari in specie e con quelle cooperative o “di territorio” in generale. Autorizzando sospetti su forse inesistenti complotti con i poteri forti delle banche internazionali così apprezzate da alcuni suoi consiglieri economici. Salvo poi, in una recente, dotta intervista al Corriere, elogiare il modello del colosso francese Credit Agricole, che però, guarda caso, altro non è che una federazione fra banche cooperative di territorio…
Già: ma lo sa, Renzi, cos’è una “banca di territorio”? Ecco, se non lo sa, s’informi dal padre della Boschi o dal suo, di padre. Che non sono lestofanti, ma gente esperta se non altro della difficoltà di fare bene credito, locale o nazionale o globale che sia. Una banca di territorio, qual era Banca Etruria, nasce dalla scelta di concentrare l’attività creditizia a favore di un mercato locale, nella presunzione e speranza di conoscerne così bene le prerogative, i rischi ma anche le virtù, da riuscire a non sbagliare nella scelta dei clienti da finanziare e di quelli da respingere. Se questo schema fosse attuato seriamente, le banche del territorio sarebbero le migliori di sempre.
Purtroppo ci sono però due controindicazioni. La prima riguarda la settorializzazione dell’attività creditizia: se per finanziare le aziende orafe di un distretto come Arezzo una banca come la Etruria finisce con l’esporsi particolarmente con questa determinata categoria d’imprese, nel caso appunto gli orafi, nel momento in cui quel business va in crisi il riverbero negativo sui conti della banca è forte e diretto; la seconda nasce dal fatto che pur conoscendo vita, morte e miracoli di tutti i suoi clienti, e anzi proprio per questo, il banchiere di territorio è spesso un loro amico, se non parente, e si sa: fare buoni affari con amici e con parenti è difficilissimo, si finisce più spesso con l’esserne influenzati e sbagliare.
Questo per dire che nessuno ha la pietra filosofale per capire, oggi, quale sia la strada giusta per rilanciare le banche italiane; che forse sono troppe – così ha detto Renzi! – per il nostro mercato, ma lo sono come, eventualmente, sono troppe le chiese e troppe le scuole elementari: nessuna stranezza, nessuno spreco aprioristico, solo antropologia, cultura materiale. E valutazioni soggettive assolutamente opinabili. Inutile sperare che impari la lezione, ma davvero in materia bancaria sarebbe meglio se Renzi facesse non uno ma due passi indietro. Difficilmente le banche sfuggiranno a una stagione di tagli e ristrutturazioni. Una pesante dieta che danneggerà l’occupazione. E allora il premier lasci la patata bollente nelle mani della Bce – oggi guidata da uno bravo, come Mario Draghi – e non faccia (ulteriori) incursioni che potranno portare solo ulteriore confusione in un quadro che è già molto confuso di suo.