Guardate i tre grafici a fondo pagina: parlano da soli, potrei chiudere qui l’articolo di oggi e sarebbe uno dei più efficaci che abbia mai scritto. Questi grafici sentenziano la morte dell’Abenomics, il folle esperimento di monetizzazione del debito lanciato dal governo nipponico nel 2013 e che ha portato, a fronte di triliardi di yen spesi e di un mercato obbligazionario ormai totalmente in mano pubblica, a questa follia. La spesa privata è un disastro ed è calata del 2,9% su base annua, le vendite al dettaglio sono in calo addirittura del 2,5% su base mensile e l’ultimo dato registrato è stato il peggiore dallo tsunami del 2011, mentre la produzione industriale è allo stesso livello del dicembre 2012 ed è calata dell’1% sempre su base mensile. Di più, proprio la scorsa settimana il tasso di disoccupazione ha registrato una crescita dal 3,1% al 3,3%, aumento massimo da gennaio.
Certo, il rafforzamento che sta subendo in questo periodo lo yen non aiuta, ma non prendiamoci in giro: con l’armamentario messo in campo per stimolare l’inflazione al 2% siamo di fronte al fallimento totale, reso tale dalla decisione di alzare l’Iva dal 5% all’8% nell’aprile dello scorso anno. Certo, il governo si è accorto di aver commesso un errore e il già programmato ulteriore aumento di altri due punti percentuali per arrivare al 10% è stato posticipato da ottobre di quest’anno all’aprile del 2017, ma l’impatto che si è sostanziato sui consumi dei cittadini giapponesi è stato devastante. Quell’aumento ha gettato, un’altra volta, la terza economia del mondo in recessione e questo nel pieno del più grande esperimento di espansione monetaria e stimolo della storia. La scorsa settimana il governo, nell’ultima dimostrazione di deambulazione alla cieca nella crisi, ha reso noto che gli alimentari saranno esentati dal prossimo rialzo dell’Iva, primo caso dall’introduzione della stessa nel 1989, ma questo costerà alle entrate fiscali qualcosa come un triliardo di yen, circa 5,5 miliardi di dollari, l’equivalente di un quinto del maggiore introito che ci si attendeva.
Certo, molti vedono in questa mossa nulla più che una mancia elettorale in vista delle elezioni per la Camera alta in programma il prossimo anno (tutto il mondo è Paese), ma resta il dato più lampante: si arriva a questi mezzucci a fronte di un piano di Quantitative easing da triliardi che lo scorso ottobre ha visto il volume degli acquisti salire addirittura a 80 triliardi di yen all’anno (446 miliardi). Davvero il dinamico duo Abe-Kuroda continuerà in questa follia? C’è da scommetterci, visto che lunedì – una volta resi noti i risultati di cui vi ho parlato a inizio articolo – l’indice Nikkei ha chiuso in rialzo dello 0,6% proprio sull’onda di aspettativa di altro doping di Stato per l’economia e la finanza. Pazzi senza redenzione.
Il tutto per ottenere cosa? Tra il quarto trimestre del 2012 e il terzo di quest’anno, il Pil giapponese è cresciuto solo del 2,2%, pari allo 0,8% annuo, un risultato molto povero a confronto degli altri Paesi del G7 e a fronte della politica di stimolo in atto. Inoltre, proprio questo mese la Bank of Japan ha rivisto al ribasso le sue previsioni di crescita per l’anno fiscale che terminerà a marzo 2017, portandole da 1,7% a 1,2%, il tutto giustificato – ovviamente – dalla debole crescita globale. Ma non solo, anche le aspettative inflazionistiche sono peggiorate, visto che la Banca centrale si aspetta di raggiungere il mitico 2% di inflazione nella seconda metà del 2016 o a inizio 2017 e non più nella primavera inoltrata del prossimo anno: è la seconda volta che questo obiettivo viene spostato in avanti da quando Kuroda nell’aprile 2013 aveva fissato l’arco temporale necessario «nei prossimi due anni».
D’altronde, i dati parlano chiaro: i prezzi al consumo sono saliti solo dello 0,3% in ottobre su base annua, mentre l’inflazione core (che non calcola energia e alimentari) è fissa allo 0,7%. Certo, il Pil nominale appare in crescita robusta, ma questo va a impattare con l’altro lato della medaglia, ovvero una ratio debito/Pil che per il Giappone è in area 240% e l’Ocse ha già avvertito che potrebbe esplodere fino al 400% se non si darà vita a riforme strutturali necessarie, tra cui una maggiore partecipazione delle donne al mondo del lavoro, visto che oggi la percentuale è al 49% del totale, stando alla Banca Mondiale.
Altro baluardo cui Abe pare appigliarsi disperatamente è la zona di libero commercio denominata Trans-Pacific Partnership tra Giappone e altri 11 Paesi dell’area del Pacifico che dovrà essere ratificata entro due anni: l’accordo, stando alla volontà di Tokyo e alle nuove proiezioni presentate la scorsa settimana, dovrebbe aumentare la crescita economica di 3 punti percentuali, pari a 14 triliardi di yen (78 miliardi di dollari), quattro volte i calcoli iniziali del governo. Ma questo non serve ai cittadini nipponici, per i quali l’unica cosa che conta davvero sono il salario e lo standard di vita. E in tal senso, il premier Abe ha chiesto alla Confindustria nipponica di dar vita a sostanziali aumenti salariali nella sessioni di negoziati – definita “Shunto” – prevista per la prossima primavera. E come hanno risposto gli industriali nipponici all’appello del premier? Picche. Stando a un sondaggio compiuto da Reuters presso dirigenti di grandi imprese, infatti, solo 7 su 36 interpellati hanno detto che nel 2016 spenderanno più denaro per aumentare i salari per i dipendenti a tempo pieno, mentre nel caso dei lavoratori part-time nessuno ha previsto interventi al rialzo sugli stipendi. Insomma, se il governo sperava nell’aiuto dei privati per provare a ricacciare indietro l’ondata deflazionistica, ha suonato al campanello sbagliato.
Per Yoshimitsu Kobayashi, capo della lobby degli imprenditori più potente del Paese, la Keizai Doyukai, l’esecutivo deve riporre nel cassetto le proprie speranze per un aiuto da parte degli imprenditori in tal senso: «Il governo sta sperando in salari più alti come parte della propria politica economica, ma come Keizai Doyukai, ovvero come associazione di cui fanno parte i dirigenti corporate di molte grandi aziende, posso dire chiaro e tondo che non intendiamo affatto dettare l’agenda ai nostri membri. Non saremo noi a dir loro cosa fare. Oltretutto, se le aziende non hanno denaro, mi appare normale che non possano intervenire al rialzo sulle dinamiche salariali dei dipendenti».
E se Abe, oggettivamente, ha lanciato un vero e proprio appello alle tre maggiori organizzazioni degli imprenditori nipponici, suscitando in molti osservatori anche critiche per un eccesso di aspettative, dall’altra parte occorre ammettere che l’esecutivo si trova ad avere a che fare con “padroni” che oggi più che mai stanno beneficiando di condizioni di profittabilità – garantite anche dal governo – ma che preferiscono operare buybacks azionari o staccare cedole e dividendi (con annessi bonus), piuttosto che investire in CapEx, in ricerca e sviluppo o in aumenti salariali e premi di produzione per i propri dipendenti. Ovvero, miopia totale in una situazione di pre-ritorno in deflazione e quindi depressione conclamata dell’economia.
Certo, il calo della produzione industriale in novembre sembra offrire la scusa perfetta per giustificare il “no” degli imprenditori, ma stiamo parlando del primo calo da tre mesi e, comunque, in parte atteso, visto che gli analisti prevedevano un -0,6% e invece il dato reale è stato del -1%. Insomma, c’è crescente profittabilità nel ciclo industriale e questo aprirebbe spazi per un minimo di aumento salariale, ma la sfiducia nel governo ormai è tanta, troppa: finora la politica economica si è rivelata un fallimento e nessuno si azzarda a compiere mosse ritenute troppo ardite. «Potrebbero esserci aspettative di un miglioramento della produzione industriale già all’inizio del nuovo anno, ma c’è molta incertezza riguardo l’affidabilità di queste previsioni», ha dichiarato Yoshiki Shinke, capo economista alla Dai-ichi Life Research Institute. Inoltre, per Genzo Kimura, economista alla Sumi Trust, alzare i salari non è un concetto molto diffuso nella mentalità corporate giapponese, visto che sono ancora vivi i fantasmi della lost decade: «Gli amministratori delegati nipponici sono molto cauti nell’alzare i salari, soprattutto quelli base e preferiscono ancora aumentare i bonus e gli incentivi. Seguendo questo schema aziendale, avremmo una condizione in base alla quale anche se in aprile e maggio si raggiungesse un accordo durante le trattative per il contratto, la gente si renderebbe conto del maggiore potere d’acquisto che ha soltanto in giugno o dicembre, ovvero nei mesi in cui sono tradizionalmente pagati i bonus in Giappone. Capisce intuitivamente che questo non aiuterebbe affatto l’economia attraverso maggiori consumi. Inoltre, vista l’incertezza della situazione economica interna e internazionale, penso che quei soldi in più non verrebbero comunque spesi ma risparmiati. I giapponesi sono così, amano risparmiare, sono molto formiche».
Insomma, Abe metta definitivamente da parte la speranza che siano gli industriali a togliergli le castagne dal fuoco. Resta la speranza avanzata lunedì dalla Bank of Japan, ovvero il fatto che le Olimpiadi estive attese a Tokyo per il 2020 possano garantire 30 triliardi di yen (167 miliardi di dollari) all’economia nipponica, ovvero un aumento del Pil dello 0,2-0,3% annuale per ogni anno dal 2014 al 2020. È poca cosa, ma in tempi di vacche magre, ci si attacca a tutto.