Dietro gli scambi di bordate politico-mediatiche attorno al caso Etruria & C – spesso scie traccianti di smog -, dentro e attorno al sistema bancario italiano si sta avviando una partita importante, pesante. Roberto Nicastro – quadri-presidente delle banche “risolte” un mese fa – ripete che ci sono già interessamenti dall’estero. Fa soltanto il suo mestiere, faticoso e ingrato: il cui vero compenso (fin d’ora per molti versi meritato) sarebbe il ritorno come Ceo a UniCredit a missione compiuta. Ma per ora c’è la missione da compiere: vendere Etruria, CariFerrara, CariChieti e Banca Marche entro l’estate (e la Banca d’Italia giusto ieri ha selzionato gli advisor).
Le banche che hanno finanziato i salvataggi (privatissimi) imposti dall’Ue vogliono del resto rientrare il più presto possibile da un investimento indesiderato. Cedere in fretta, ma non svendere: questo ha peraltro raccomandato il presidente dell’Abi Antonio Patuelli. Il quale, fra l’altro, ha ventilato che possano essere eventuali “plusvalenze” dalle dismissioni a contribuire ai rimborsi decisi dal governo per i risparmiatori “truffati”. Con i chiari di luna sui mercati finanziari e attorno alle banche italiane tutto somiglia ormai a una doppia o tripla quadratura del cerchio: per di più i due campioni nazionali – UniCredit e Intesa – sono impegnati in prima battuta rispettivamente nella garanzia degli aumenti di capitale di Popolare di Vicenza (1,5 miliardi) e di Veneto Banca (un miliardo). Last but not the least, la Bce sembra non voler mollare la presa sugli stress test Srep e sui ritocchi all’insù dei requisiti patrimoniali per le banche italiane nel 2016.
Non è sorprendente che “l’estero” cui in molti guardano sia soprattutto quello impersonificato dai grandi fondi di private equity: gli unici in grado di mettere sul tavolo cifre a nove zeri in euro; i soli che, ormai, abbiano provato a cimentarsi anche nel ruolo di soci-guida di grandi aziende: anche se non ancora in modo consolidato nel settore bancario e mai in Italia (solo in UniCredit c’è il fondo sovrano di Abu Dhabi, ma all’interno di un nucleo stabile). Un fondo di private equity, comunque, potrà essere un po’ meno rapido di un fondo classico nel disfarsi sul mercato dei titoli acquisiti al primo accenno di upside speculativo; potrà recitare da azionista d’accompagnamento per un management responsabilizzato su un business plan; ma prima o poi vorrà uscire dall’affare. Rivendendo ulteriormente la banca ristrutturata, rimessa “a valore”.
Su questo sfondo, pochi giorni, fa l’amministratore delegato della Popolare di Vicenza, Francesco Iorio, si è mostrato estremamente franco in un’intervista. Ancor prima della trasformazione in Spa della banca – prevista per febbraio – il capo-azienda si recherà nella City e Wall Street dove conta di raccogliere almeno due terzi dell’aumento di capitale. Non ha mostrato – Iorio – di far troppo conto su investimenti locali: neppure dalle due ricche Fondazioni venete (CariVerona e CariPadova) che forse potrebbero impegnare più dei 50 milioni a testa citati.
E se resta l’auspicio generico di un gettito di almeno mezzo miliardo dai 114mila vecchi soci della cooperativa, il manager mostra moderata fiducia anche verso i big names del capitalismo del Nordest. “Tre o quattro nomi” ha buttato lì Iorio: uno di questi – presumibilmente – sarà Renzo Rosso, il patron di Diesel che in una recente intervista ha confermato di aver rivenduto un discreto pacchetto di azioni PopVi nel 2013, anche se dopo una lunga attesa.
Ma “quattro imprenditori” e pochi altri attorno a loro sarà tanto se verseranno alcune (poche) decine di milioni di euro: poco per un “nocciolo duro”. Che però Iorio, alla fine, sembra essere il primo a non volere: esattamente come le slides che verranno esibite a Londra o New York eviteranno certamente di citare gli appelli del governatore del Veneto, Luca Zaia, o dei sindaci assortiti, per il salvataggio-rilancio delle storiche “banche del territorio”. “Le banche di territorio non esistono più”, ha tagliato corto Iorio: cogliendo forse di sorpresa lo stesso neo-presidente della Vicenza, l’industriale Stefano Dolcetta. Che infatti ha subito ispirato, sullo stesso “Giornale di Vicenza”, un editoriale di appoggio al Ceo, ma finalizzato anche a tenere aperto un riassetto proprietario ancora radicato sul territorio per una banca orientata al territorio.
Resta però agli atti, nei giorni finali del 2015, di calma inquieta anche a Vicenza, la determinazione di Iorio: dietro cui si intuisce la tacita ma vigorosa suasion della nuova vigilanza Bce lungo un percorso “rottamatorio”. Niente Spa che replichino le vecchie Popolari: niente nuclei stabili di imprenditori locali, meno che mai partecipati dalle Fondazioni-Frankestein. Spazio ai grandi fondi globali, in attesa di far sparire le Popolari italiane (magari anche quelle più grandi e meno malandate) in qualche gruppo estero.
Spettacolo davvero poco gradevole: anche se – a Vicenza come a Montebelluna come altrove – è difficile affermare sia un esito del tutto immeritato. La partita, in ogni caso è iniziata: e Iorio è stato (abbastanza) fair nell’avvertire fra virgolette sulla stampa cittadina che lui sta prendendo l’aereo per andare a vendere la Vicenza ai fondi anglosassoni senza prezzo prestabilito (con il 90% di sconto gli ha “raccomandato” il Financial Times, “come per le banche greche”). Se qualcuno ha progetti concorrenti è bene che si muova in fretta (per Veneto Banca forse qualcuno ce n’è): sapendo che non avrà comunque a favore la Banca d’Italia dell’indebolito Ignazio Visco e neppure la Bce di Mario Draghi, egli pure sotto scacco dei falchi franco-tedeschi. Per non parlare del premier Matteo Renzi, sempre un po’ donchisciottesco in Europa. Fra nuovi affanni di sepoltura urgente di dissesti imbarazzanti e vecchi desideri rottamatori.