«Faccio questo lavoro da oltre venti anni, ma una situazione simile, una guerra petrolifera di questo livello non l’avevo mai vista. E, francamente, non pensavo avrei mai potuto assistere a qualcosa di simile». Sono le parole che un trader di commodities con base a Londra mi ha detto ieri al telefono, parlando della lotta per la conquista di quote di mercato del greggio, con Usa, Russia e Arabia Saudita schierati l’uno contro l’altro per sopravvivere ai prezzi in area 35-40 dollari al barile. Ma, ancora una volta, sembra Ryad la parte in campo posizionata peggio, quasi un paradosso visto che la guerra è stata scatenata proprio da lei nel dicembre del 2014, quando decise in seno all’Opec di non tagliare la produzione, dando vita alla più grossa saturazione di mercato da decenni.
L’Arabia sta infatti bruciando riserve valutarie estere molto velocemente per tamponare il fallout del basso prezzo del petrolio, tanto che sempre più osservatori vedono a rischio – e nel medio termine – il peg di cambio tra ryal e dollaro statunitense. E a confermarlo non è un analista qualsiasi, ma Khalid Alsweilem, ovvero l’ex capo dell’asset management della Banca centrale saudita: «Se dovesse succedere qualcosa al peg di cambio del ryal, allora le conseguenze sarebbero drammatiche. Ci sarebbe una seria perdita di fiducia. Il problema è che se le riserve continuano a calare a questo ritmo, mantenere quel peg diverrà insostenibile». E il grafico a fondo pagina ci mostra come in effetti le previsioni forward a 12 mesi vedano un ryal pesantemente svalutato, sintomo che il peg con il dollaro è già prezzato come morto dai mercati valutari. E proprio due giorni fa il ministero delle Finanze ha confermato che il deficit per quest’anno è stato di 367 miliardi di ryal (66 miliardi di dollari), in netto aumento dai 54 miliardi dell’anno precedente, mentre il Fmi ha detto che con la prosecuzione delle dinamiche in atto il livello obiettivo potrebbe arrivare a 140 miliardi di dollari. Certo, siamo al 16-17% del Pil contro il 20% che si temeva, ma la sostanza cambia poco: calcolando, inoltre, che le rimesse di lavoratori stranieri drenano altri 36 miliardi di dollari l’anno e che le fughe di capitali sono incessanti da quando è crollato il prezzo del petrolio.
Bank of America, in uno scenario di simulazione, ha detto che se il barile arrivasse a 30 dollari al barile, il deficit potrebbe salire a 180 miliardi di dollari, polverizzando automaticamente il peg di cambio con il biglietto verde: e come mostrava il grafico, già oggi siamo a 730 punti base, il massimo dai peggiori giorni della crisi petrolifera del febbraio 1999. Insomma, l’Arabia è ricca, ma non ha tasche abbastanza profonde da poter gestire una guerra di questo livello per un periodo troppo prolungato di tempo. Quel livello di tensione valutaria dice una cosa sola, infatti: ovvero che speculatori ed hedge funds della regione stanno orchestrando un attacco coordinato contro la valuta saudita, un qualcosa che ha come immediata conseguenza l’aumento delle fughe di capitali. E quanto accaduto la scorsa settimana in Azerbajan, dove il crollo del manat ha portato le autorità ad ammettere la sconfitta e abbandonare il peg fisso di cambio, ci dice che sono molti i Paesi dipendenti dal petrolio che dovranno fare i conti con le proprie riserve valutarie e i propri budget.
E proprio Ryad ha inaugurato l’altro giorno l’austerity, imposta in questo caso non dalla Troika ma proprio dall’impatto del prezzo del greggio sul deficit di bilancio: insomma, pronta una finanziaria a colpi di tagli. Nel budget del 2016, infatti, è previsto un calo del deficit di ben 10 miliardi di dollari e questo maxi-risparmio sarà raggiunto attraverso una serie di riforme, mentre il ministero delle Finanze non esclude il ricorso al mercato obbligazionario – strada insolita per un Paese abituato a enormi surplus di bilancio – per coprire il fabbisogno. Ma per Khalid Alsweilem questa strada non è praticabile: «Se si pensa di tamponare l’effetto negativo dell’utilizzo di riserve, emettendo bond per finanziarsi, sbagliano di grosso, visto che l’attuale struttura monetaria vanifica ogni tentativo sul nascere. È infatti completamente errato pensare che il ministero delle Finanze possa proteggere gli asset esteri finanziandosi in ryal invece che vendendo riserve. Questo non aiuta affatto, anzi scatenerà un outflow dai conti di risparmio».
La riforma più rumorosa – ancorché limitata se si guardano gli importi reali di intervento – è però quella che impone il taglio dei sussidi energetici e anche se il processo sarà graduale, alcune misure sono già entrate in vigore e includono un primo aumento dei prezzi della benzina (da 16 a 24 centesimi di dollaro per litro), un rincaro delle bollette elettriche per i cittadini più ricchi e un piccolo incremento delle tariffe sull’acqua. L’esecutivo sta anche valutando l’introduzione dell’Iva in coordinamento con gli altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrein, Emirati, Kuwait, Qatar e Oman) e un aumento delle tasse sul consumo di bevande e tabacco. La spesa pubblica saudita così scenderà nel 2016 da 975 a 840 miliardi di riyal, peccato che la fetta principale del budget resti la spesa militare con 213 miliardi, una voce lievitata quest’anno per via della proxy war con l’Iran scatenata la scorsa primavera in Yemen, oltre 6mila morti per cui nessuno però pare indignarsi. «Il budget considera i prezzi del petrolio più bassi e le difficoltà economiche e finanziarie a livello regionale e internazionale per la nostra economia», ha ammesso Re Salman, alla luce del fatto che l’export petrolifero rappresenta il 90% delle entrate fiscali e il 40% del Pil, il quale quest’anno dovrebbe crescere del 3,3%, ma nel 2016 potrebbe rallentare bruscamente.
Ma torniamo al peg tra ryal e dollaro, visto che questo ha rappresentato fin dalla sia introduzione l’àncora della politica economica saudita e l’elemento di maggior credibilità finanziaria di Ryad: perderlo, significherebbe non solo un disastro valutario, ma anche un avvitamento della situazione politica che potrebbe andare fuori controllo e portare alla luce tutte le divergenze e le tensioni già presenti all’interno della casa reale. Da agosto a oggi le riserve valutarie estere sono scese da 746 miliardi di dollari a 647, ma in molti fanno notare che il rischio maggiore potrebbe annidarsi nel mondo oscuro dei contratti derivati stipulati dalla Banca centrale in un azzardato tentativo di protezione dalle fluttuazioni.
Sempre per Khalid Alsweilem, oggi accademico al Belfer Centre della Harvard University, «le autorità saudite hanno compiuto un grosso azzardo inondando il mondo di petrolio per guadagnare quote di mercato e tagliare fuori i concorrenti. Il solo pensare che prezzi bassi significhino la fine dell’industria shale statunitense non ha senso e si rivelerà un errore». E anche all’interno della famiglia reale saudita c’è divisione al riguardo, anche se per adesso sembra prevalere la linea dell’ottimismo, ovvero quella di chi spera in un deja vu di metà anni Ottanta, quando il Regno sposò una strategia simile e riuscì a colpire la produzione non Opec, preparando il terreno per una ripresa delle dinamiche dei prezzi.
Sarà, ma mi pare che la situazione attuale non abbia precedenti e che basarsi su ricorsi storici raffazzonati potrebbe rivelarsi fatale, per almeno tre ragioni. Primo, nonostante stia soffrendo, il comparto shale statunitense regge anche con i prezzi sotto i 50 dollari al barile, visto che giocando sui margini l’operatività è rimasta immutata e la stessa Opec, nel suo ultimo report, ha dovuto ammetterlo. Secondo, la Russia ha superato di nuovo Ryad come primo fornitore di petrolio della Cina e sta pompando al massimo dall’era post-sovietica, potendo oltretutto contare sul benefico apporto della svalutazione del rublo. Terzo, il Pil globale sta perdendo intensità molto rapidamente a livello energetico e sia l’efficentamento che le tecnologie legate alle rinnovabili potrebbero porre ulteriore pressione sul petrolio.
Per Khalid Alsweilem, «in Arabia ancora oggi la sensazione è quella che questa situazione sia ciclica e che presto muterà di verso, quindi tutto sarà di nuovo ok. Il problema è sbagliare valutazione, ovvero se quanto sta accadendo è strutturale, un Paese come l’Arabia non può stare fermo a guardare, perché vedrebbe a rischio la sopravvivenza stessa della sua economia». Non a caso, il principe Mohammed bin Salman, il 30enne decisionista che sta di fatto guidando la nazione, tiene sul comodino il saggio della McKinsey “Beyond Oil“, nel quale ci sarebbe la ricetta per rompere una volta per sempre l’ombelicale dipendenza della nazione dal petrolio e raddoppiare il Pil entro il 2020 con un blitz di investimento da 4 triliardi di dollari in otto industrie: petrolchimica, metalli, acciaio, alluminio, automobili, manifattura elettronica, turismo e sanità.
E attenzione, perché non solo lo studio della McKinsey dice chiaro e tondo che l’Arabia rischia di affrontare un vero e proprio disastro economico se non reinventa se stessa in fretta, ma anche che per attuare questa transizione le donne devono entrare ufficialmente e in massa nella forza lavoro: forse, questa crisi petrolifera porterà con sé qualcosa di buono a lungo termine. L’alternativa? Entro il 2030, con queste dinamiche e senza riforme strutturali, la ratio debito/Pil sarà al 140% e il deficit sarà stabilmente in doppia cifra.
Forse, nei suoi calcoli errati fin da principio, Ryad pensava che la Russia sarebbe stata fiaccata molto di più e molto prima da questa disputa, ma il Cremlino ha lasciato fluttuare il rublo, arrivando a una svalutazione del 60% sul dollaro: certo, il colpo è stato duro all’inizio per i consumatori russi, ma ha protetto il budget dallo shock immediato del calo del prezzo del barile. Ryad deve agire. E speriamo lo faccia davvero attraverso un percorso di riforme e non attraverso scorciatoie geopolitiche o di destabilizzazione come avvenuto in passato.