Dieci giorni fa, il capo della vigilanza della Bce, Danièle Nouy ha tenuto una lectio magistralis all’Università Cattolica di Milano essenzialmente per ribattere a un’accusa, in Italia sempre più esplicita, alla gestione della nuova supervisione bancaria unica nell’eurozona: “incoerenza” con gli indirizzi di politica monetaria via via sviluppati dal governing council Bce, cui formalmente il consiglio di sorveglianza bancaria risponde.



Davanti agli stati maggiori del sistema bancario italiano, Nouy ha snocciolato argomenti su argomenti per smontare una tesi: che la richiesta in corso di ulteriori rafforzamenti degli standard patrimoniali alle banche vada a scoraggire il credito alle imprese e quindi a depotenziare lo stimolo monetario del Quantitative easing alla ripresa. Ma tanta insistenza – oltreché ai banchieri italiani poi intrattenuti dalla Nouy anche in un briefing riservato – dev’essere risultata poco gradita allo stesso presidente della Bce, Mario Draghi (lo si è letto in filigrana anche in un articolo di Federico Fubini sul Corriere della Sera, alla vigilia del consiglio Bce di ieri). Il tema dell’incoerenza fra “politica della vigilanza” e “politica monetaria” era stato del resto sollevato in termini quasi formali – in una lettera di agosto alla Nouy – da Fabio Panetta, vicedirettore generale della Banca d’Italia e membro italiano del consiglio di vigilanza Bce, presente al summit di Milano



Su questo sfondo ha assunto rilevanza, ieri, l’appesantimento dallo 0,20% allo 0,30% del tasso negativo riconosciuto ai depositi delle banche presso la Bce. La scelta focalizza indubitabilmente il ruolo del sistema bancario nel sostenere il ciclo economico. Draghi preme sulle banche (anche italiane) perché non mantengano inattiva la liquidità iniettata con il Quantitative easing e alimentino il credito. Nel toccare questa leva è quindi implicita la convinzione che le banche possano e debbano fare di più sul terreno della ripresa. Ma qui è implicita anche una valutazione problematica sugli orientamenti della neonata vigilanza unica, sotto la responsabilità operativa di madame Nouy.



La questione, ovviamente, non è solo tecnica: non riguarda, ad esempio, la convinzione di Nouy che qualche decimo in più di “Cet1” negli stati patrimoniali delle banche si traduca in qualche decimo in meno di costo del finanziamento nel conto economico, in un gioco a presunto saldo positivo. La questione è anche e forse soprattutto di governance istituzionale della Bce: quindi politica al massimo livello, in quanto l’unione monetaria e l’unione bancaria sono nei fatti le sole Europe realizzate, più dell’Antitrust di Bruxelles.

Porre il tema della “coerenza” fra gestione dell’euro e controllo sulle banche dell’euro – entrambe sotto la responsabilità istituzionale di Draghi, dell’esecutivo e del “consiglione” dei 19 governatori dei paesi-membri dell’eurozona – significa misurare i rapporti di forza all’interno dell’Europa di oggi: significa – da parte di Draghi – lanciare una sfida calcolata alla “non unanimità” con cui anche ieri si è chiuso il consiglio. Che ha naturalmente deluso i mercati. così come la Fed di Janet Yellen li tiene da mesi sulla corda sul versante opposto: quello di un rialzo dei tassi del dollaro, che non arriva mai. Ma la favola della banca centrale “pilota automatico” dell’economia sembra fuori stagione, a Washington come a Francoforte.

La lunga campagna presidenziale Usa sta per ora avendo la meglio sulle attese razionali di gestori, broker e analisti sul rialzo dei tassi; ma in fondo è proprio una certa Wall Street a mostrarsi preoccupata della continuità democrat fra Barack Obama (che ha nominato la Yellen) e Hilllary Clinton. A Francoforte, invece, a premere politicamente contro le ragioni tecnico-economiche della Bce sono i due pilastri politici dell’Ue. Da una parte c’è la Germania merkeliana appannata dopo l’estate greca, il caso Volkswagen, la crisi dei migranti, l‘escalation geopolitica. Dall’altra parte del Reno c’è la Francia di Hollande, schiacciata dal terrorismo islamico ma anche della crescita interna di lungo periodo del lepenismo.

È con queste due forze che il capo della Bce, passaporto italiano e fede globalista, deve misurarsi: con Berlino, mai favorevole all’easy money; e con Parigi che ritiene la guida della vigilanza Bce una sorta di co-presidenza con larga autonomia (anche di impostare una propria politica bancaria, cioè una para-politica monetaria). Non sorprende che, ieri, Draghi abbia provato a riprendersi un po’ di politica creditizia dell’eurozona. Ha frustato le banche. Ma non solo.