Se a qualcuno fosse servita un’ulteriore riprova del fatto che Re Draghi era ormai nudo, ieri è stato l’impietoso giudizio del mercato a fornirla. I primi due grafici a fondo pagina mostrano infatti plasticamente come le principali assets classes hanno reagito all’annuncio dell’estensione del programma di Quantitative easing della Bce almeno fino al marzo 2017, con la possibilità di estenderlo ancora se necessario e dell’inclusione di obbligazioni emesse da regioni ed enti locali nella platea di bond eligibili all’acquisto. Una rovina assoluta, tanto che meno di un’ora dopo l’annuncio del numero uno della Bce, l’euro era già risalito a 1,09 sul dollaro, un balzo di 370 pips, il maggior incremento dal 2009. Ma non è solo questo ad aver fatto deluso i mercati, né il fatto che il tasso di deposito sia stato spostato in negativo solo di 10 punti, al -0,30%, sono altre due cose. 



Una è la criticità di cui vi parlavo nel mio articolo di ieri, ovvero il fatto che il programma di Qe non abbia un’alternative reverse, ovvero la possibilità di rivendere i bond acquistati, ma unicamente la possibilità di detenerli fino a maturazione. Draghi ha infatti comunicato che i rendimenti dei bond acquistati dalla Bce verranno reinvestiti «finché necessario» per contribuire al miglioramento della situazione di liquidità: il problema è che il mercato non è scemo e visto che metà degli emittenti europei ha rendimenti sui propri titoli di Stato in negativo su scadenze sempre più lunghe, come ci mostra la tabella a fondo pagina, è ovvio che la liquidità che la Bce potrà reinvestire è pari a zero o poco più. Il passo successivo, quindi, potrebbe essere quello di rivendere, in caso il rialzo dei tassi Usa desse il via alla grande rotazione da azionario a obbligazionario. 



La Bce, inoltre, proseguirà le operazioni di rifinanziamento a tasso fisso «finché necessario» o almeno fino al 2017, altro segnale di netta debolezza e di navigazione a vista. Insomma, nonostante Draghi abbia sottolineato come la politica accomodante della Bce stia avendo «significativi effetti positivi sulle condizioni di finanziamento, sul credito e sull’economia reale» (potere dell’ottimismo o della disperazione), i mercati hanno prezzato una sola cosa: i fuochi d’artificio che ci si attendeva non ci sono stati. Sempre per Draghi, «la Bce sta facendo di più perché sta funzionando, non perché sta fallendo. Le misure di politica monetaria accomodante sono state abbastanza efficaci, come dimostrano il calo del costo del credito nell’Eurozona, la flessione degli spread, in particolare nei Paesi vulnerabili e il miglioramento generale delle condizioni di finanziamento». Anche in questo caso, non si sa in che mondo viva, a parte l’oggettiva compressione artificiale del rischio di credito sugli spread. 



La parte più interessante è arrivata però sul finale, quando Draghi ha rivelato che le decisioni del Consiglio direttivo della Bce «non sono state unanimi, ma sono state prese con una maggioranza molto ampia», chiaro segnale che la Bundesbank sta per dire basta. Interpellato poi proprio sulla reazione nettamente negativa dei mercati alle misure annunciate, o più che altro alla loro mole, Draghi ha poi dichiarato che «la nostra comunicazione non è stata sbagliata penso che ci voglia tempo perché le nostre misure vengano pienamente apprezzate». Come al solito, non sono io che non so spiegarmi, siete voi a non capire. 

Ed eccoci alla seconda criticità, la più seria: i mercati hanno capito benissimo, tanto che casualmente alle 15:16 di ieri pomeriggio, quando le Borse stavano schiantandosi, il circuito Euronext si è bloccato per “ragioni tecniche”: ovvero, come fermare un calo dei corsi basato su validi motivi? Bloccando le contrattazioni e facendo capire a chi investe che la logica del “whatever it takes” può esprimersi e palesarsi in vari modi, anche truffaldini. Ma i mercati non si può fregarli per sempre, soprattutto quando si è creato un mondo in cui il debito europeo con rendimento negativo ha un controvalore di 2,6 triliardi, schiantando anche il record precedente di aprile quando si verificò lo shock sul Bund. E cosa prezzano i mercati? Non essendoci più price discovery, né fair value nell’obbligazionario, prezzano la realtà. Ovvero, il fatto che rendimenti negativi portano come conseguenza proprio ciò che la Bce e tutte le Banche centrali intendevano combattere con le misure di stimolo: la deflazione. Insomma, la ricetta non funziona e siccome l’unico obiettivo in un mondo che sta annegando in 200 trilioni di debito è proprio stimolare inflazione, il timore è che l’esperimento vada fuori controllo, arrivando all’extrema ratio del Qe perenne e quindi al rischio opposto, l’iperinflazione. 

Ma c’è dell’altro e forse di peggio. La cosiddetta politica di tassi di interesse negativi (Nirp) doveva spingere la gente a utilizzare i propri risparmi per investire nel mercato o nell’economia reale, essendo i tassi negativi un disincentivo all’accantonamento. Il problema è che con tutti che vanno front-run agli acquisti della Bce e con i rendimenti che continuano a schiantarsi, segnalando uno tsunami di deflazione, tenere i soldi in banca ha un senso eccome: insomma, i risparmi dei cittadini stanno salendo, a non salire sono i salari e i consumi, quindi ovviamente nemmeno l’inflazione. Insomma, tassi ultra-bassi potrebbero perversamente portare a una maggiore propensione al risparmio, anche per l’incertezza legata al sistema pensionistico, di cui Tito Boeri l’altro giorno ci ha dato onesta conferma. 

Detto fatto, nonostante il Qe, le aspettative inflazionistiche in Europa non sono mai state così basse. Insomma, in un mondo interconnesso a livello monetario, ciò in cui si sono imbarcate le Banche centrali è soltanto una guerra a chi esporta più deflazione. Di più, queste dinamiche hanno eroso la miglior linea di difesa della Banche centrali proprio contro gli shock deflazionistici, oltretutto in un contesto di costi energetici ai minimi da anni. Ma attenzione, perché questa tendenza non riguarda solo l’Europa. Anzi. Il primo grafico a fondo pagina ci mostra come le aspettative di breakeven inflazionistico statunitensi a 5 anni siano oggi al di sotto del minimi di gennaio, ma, soprattutto, con lo spread verso l’eurozona che si è ridotto solo a 20 punti base dai 60 dello scorso ottobre. Insomma, gli investitori obbligazionari segnalano che la Fed non ha più il controllo, mentre la Fed finge di ignorare le preoccupazione del mercato legate alla deflazione. 

E ancora il secondo grafico, il quale ci mostra come a partire dal 2013 i corsi azionari siano andati in rally, mentre le pressioni deflazionarie erano rinforzate da un dollaro forte, dai bassi prezzi delle commodities e dal calo della domanda globale. 

 

Se però la correlazione pre-2013 dovesse essere presa come riferimento, delle due l’una: o la Fed alza i tassi, perché in base ai prezzi attuali dei titoli azionari il breakeven inflazionistico dovrebbe essere a circa 1,5% oppure lo Standard&Poor’s 500 dovrebbe tradare a metà del suo valore, ovvero a 900 punti o forse meno. E le parole delle Yellen di mercoledì, durante la presentazione del Beige Book, hanno fatto capire che la Fed il 16 dicembre alzerà i tassi: io non ci credo, ma se davvero accadesse, state certi che la svalutazione dell’euro sarà ampiamente depotenziata dallo shock a livello globale che partirà da materie prime e mercati emergenti. 

D’altronde, lo stesso Mario Draghi un mese e mezzo fa dichiarò a Il Sole 24 Ore che «le previsioni per la crescita sono state riviste al ribasso e il rallentamento probabilmente non è temporaneo»: cosa significano queste parole? Semplice, che il Qe è fallito, non solo negli Usa ma anche in Europa. E adesso uscire dal baratro sarà molto complicato. 

Non ci credete? Mettiamo qualche cifra in fila. Dal crollo Lehman sono stati compiuti 606 tagli dei tassi a livello globale, le Banche centrali hanno acquistato tramite i Qe qualcosa come assets per 12,4 triliardi di dollari dal caso Bear Stearns a oggi, le Fed sta operando la stringa di politica dei tassi a zero più lunga di sempre, visto che ora ha superato anche il periodo bellico tra l’agosto 1937 e il settembre 1942, alcune Banche centrali europee sono in negativo (Svizzera, Norvegia e Svezia), 6,3 triliardi di debito di debito governativo a livello globale ha rendimento inferiore a zero e 20 triliardi inferiori all’1%. Risultati pratici per l’economia reale? Zero. 

Nel contempo, però, per ogni posto di lavoro creato, le corporations Usa hanno speso 296mila dollari in buybacks azionari e un investimento da 100 in un portafoglio misto azionario/obbligazionario (60/40) a partire dal Qe1 ora varrebbe 205 dollari contro un salario di 100 dollari che durante lo stesso periodo è salito solo a 114. Ma si sa, a certa gente basta dire che lo spread sul Bund è basso ed è contenta, Matteo Renzi ne è l’esempio classico. Lo stesso Mario Draghi ha difeso questa politica di soppressione artificiale dei costi di finanziamento operata dalla Bce, con il fatto che così agendo sarà meno dolorosa la transizione verso la disciplina di budget dei Paesi meno virtuosi, ovvero quelli periferici come Italia, Spagna e Portogallo. 

L’ultimo grafico mette la parola fine alle bugie fin troppo lunghe e ostentate della Bce e del suo numero uno. Preparatevi a una bella manovra supplementare, anche se per ora né Renzi, né Padoan possono permettersi di dirvelo.