Il 4 dicembre, per puro caso, si sono tenute due presentazioni di documenti, rispettivamente a Villa Manin nel Friuli, e nei locali del Cnel a Roma, in cui ricercatori che hanno lavorato indipendentemente e senza neanche conoscersi e sapere che stavano trattando temi analoghi, giungevano alle medesime conclusioni: per non parlare più di decimali e assaporare l’inizio di una vera ripresa.
Si trattava di due documenti molto differenti. A Villa Manin veniva presentati un pamphlet, curato da una quindicina di autori, che rappresenta il “manifesto” del Centro Studi Impresa Lavoro per una drastica revisione della politica tributaria e una vigorosa riduzione della pressione ed oppressione fiscale. Al Cnel, si presentava il quarantanovesimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Il Censis è nato nel 1964. Il Centro Studi Impresa Lavoro solo diciotto mesi fa. Contano, quindi, su tradizioni e risorse molto differenti. Il pamphlet di Impresa Lavoro non raggiunge le 90 paginette. Il Rapporto Censis intende essere un documento di consultazione e riferimento e, come sempre, è strutturato in otto corposi capitoli per diverse centinaia di pagine.
Il messaggio, però, è simile: la pressione e l’oppressione fiscale bloccano qualsiasi ripresa. Nel documento Censis c’è un interessante dato sociologico: il 63% delle famiglie italiane nella fascia di reddito netto tra i 2.500 e i 3.000 euro (quindi, piccola borghesia) è favorevole a una riduzione delle tasse e delle imposte anche ove ciò comporti una riduzione dei servizi pubblici. Servizi, per di più giudicati in decadimento, specialmente in uno dei settori più vitali – quello della sanità.
Non solo il rapporto Censis testimonia di un’Italia in un “limbo”: ad esempio, le famiglie italiane dispongono di una considerevole ricchezza finanziaria e immobiliare (anche nelle fasce medio di basse di reddito), ma non investono in quanto cadute in quella che si può chiamare “la trappola dell’incertezza”. Non solo negli ultimi due anni hanno perso quel che era rimasto della certezza delle regole (dato che leggi di stabilità approvate da un ramo del Parlamento vengono modificate, o ne se ordina la modifica, con un tweet), ma istituti a tutti cari (come la previdenza) sono diventati mira di bombe al plastico, lanciate da un piccolo gruppo di paranoici monomaniaci, incidendo negativamente sulle poche certezze dei pensionati attuali (e di quelli futuri che temono di avere riservato un trattamento analogo in futuro). Quindi, la forte preferenza per la liquidità, documentata del rapporto Censis e la stagnazione di quegli investimenti a lungo termine che rappresentano la via obbligata per la ripresa, in quanto, nel breve periodo agiscono sul tasso di utilizzazione della capacità attiva (e dell’occupazione) e nel medio e lungo sulla produttività.
Il ministro dell’Economia e delle Finanze conosce certamente i lavori sulla “flat tax”, esemplare quello di otto anni fa dell’Università di Colonia (Iza Discussion Paper N. 3142) in cui si dimostra come il successo della “flat tax” (un’aliquota unica, piuttosto bassa, sgomberando il campo da agevolazioni, incentivi e tutti) nei Paesi neo-comunitari dell’Europa centrale e orientale metta a repentaglio i complicati (e pesanti) sistemi in altri Paesi Ue (come quello dell’Italia). L’analisi indica che se introdotta in Germania, la “flat tax” potrebbe aumentare le disuguaglianze di reddito (ove non accompagnata da una revisione del welfare). Conclusioni analoghe si ricavano da simulazioni effettuate in Olanda (Cesifo Working Paper N. 1890).
Sorgono tre interrogativi: a) sono i sistemi tributari degli Stati della “vecchia” Ue a 15 a essere più o meno efficienti, sotto il profilo economico e sociale oppure lo sono l’estensione e le modalità di intervento pubblico in essi radicatosi?; b) gli Stati neocomunatari a “flat tax” e poco welfare non finiranno per fare le scarpe agli altri?; c) l’arma vincente non consiste nell’”affamare la bestia”, ossia ridurre aliquote e gettito per imporre una marcia indietro della mano pubblica?
Alla prima domanda risponde uno studio del ministero dell’Economia danese e dell’Università di Copenaghen (Cesifo Working Paper n. 1859): ci piaccia o non ci piaccia, nell’Ue, un coordinamento delle politiche tributarie è inevitabile e tale da comportare vincitori e vinti . Alla seconda, un saggio del pensatoio liberale svedese Timbro dimostra che proprio nell’Europa occidentale i Paesi con la mano pubblica più tentacolare sono anche quelli dove l’esclusione sociale sta crescendo più rapidamente. Questa ipotesi viene rafforzata da un lavoro della Commissione europea ignorato in Italia, le previsioni al 2050 della produttività del lavoro nell’Ue a 25 (prima che entrassero Bulgaria e Romania): un rallentamento marcato nell’Ue in generale, ma soprattutto in quelli la cui popolazione si invecchia, lo stato sociale è esteso e il sistema tributario pesante. Una prova del 9 si ha, indirettamente, da uno studio dell’Università Carlo III di Madrid (Cepr Discussion Paper n. 5812): negli Stati Uniti (dove il welfare è leggero e la Pubblica amministrazione non è – per utilizzare i qualificativi di Giuliano Amato – “impicciona” e “pasticciona”) i maggiori beneficiari di una “flat tax” sarebbero proprio i più poveri.
La lezione è chiara: occorre ridurre l’onere tributario e semplificarne la struttura – questo il significato della “flat tax” (anche se non si va immediatamente ad aliquota unica ma si viaggia verso di essa durante una fase di transizione). È fattibile se non si opera preliminarmente dal lato della spesa, soprattutto di parte corrente. Per anni si è creduto nella strategia (mai praticata in Italia) di imporre una riduzione della spesa smettendo di alimentarla con gettito tributario. A raggelare questa tesi, è venuto un saggio di Christina e David Romer dell’Università della California a Berkeley (Nber Working Paper N. W 13548) in cui si dimostra (sia tramite un’analisi econometrica comparat,a sia tramite lo studio di quattro “episodi” effettivi di politica economica) che l’assunto non tiene: se non si taglia prima la spesa pubblica meno produttiva, aumentano deficit e disavanzo e, dopo un paio di esercizi, occorre aumentare di nuovo le tasse. Quindi, urge chiedere ai Ministri della spesa di mettere le loro casse in ordine e dare certezze agli italiani. Se non vogliamo entrare nel circolo vizioso: alte tasse, alto welfare, bassa produttività, accresciuta concorrenza.