Venerdì alle 11 del mattino eastern time abbiamo risposto davvero in molti all’invito dell’Economic Club di New York, da Cipriani, al 55 di Wall Street. Ci è stato subito chiaro che per il presidente della Bce Mario Draghi, era di estrema importanza “ricalibrare” subito a un passo dal New York Stock exchange (e dalla Fed locale) la delicata conferenza stampa di giovedì, dopo il plenum dei 19 governatori dell’euro. Una sessione che non dev’essere stata affatto un pranzo di gala, tanto che le reazioni immediate dei mercati sono state improntate a un bon ton ancora inferiore. La Reuters, del resto, ha sintetizzato in modo fin troppo crudo: “I progetti di stimolo della Bce rdimensionati da una martellante opposizione”; chiaramente della Bundesbank.



Non è stato affatto sorprendente, dunque, che Draghi abbia confermato già alla vigilia l’appuntamento newyorchese, a costo di trascorre una notte in aereo, giusto il tempo di cambiarsi d’abito. Ed è subito stato chiaro che a tutti coloro che ascoltavano che “Super-Mario” ci teneva a speak out, a parlar chiaro, a togliersi più di un qualche sassolino dalla scarpa. Dai resoconti ufficiosi è filtrato bene il signalling ricalibrato da Draghi: anche se probabilmente è stata altrettanto rilevante l’atmosfera che ha accolto la singolare determinazione del presidente della Bce.



Non è facile che l’Economic Club rompa un silenzio tradizionalmente interessato quanto compassato. Quando “Mario” ha affrontato davanti al milieu finanziario newyorchese il voto “non all’unanimità” del consiglio Bce sull’estensione del Quantitative easing nell’eurozona, non volava una mosca. Era un tema che – nei rumor del post-consiglio – aveva colpito i mercati quasi quanto il dispositivo tecnico annunciato, meno espansivo di quello atteso. Bene, ecco lo scolpito stenografico di Draghi: “Come altre banche centrali anche la Bce ha qualche divergenza interna, ma se c’è qualcuno che ha dimostrato che l’unanimità non è un vincolo alla politica monetaria questo sono io”. Parole che sono state seguite da un brusìo soddisfatto che equivaleva a un “bravo Mario, fagliela vedere alla Bundesbank”.



Dietro chi scrive queste righe, un banchiere ha commentato: this man has’nt a shred of self-doubt, quest’uomo non ha il minimo dubbio su se stesso. Draghi è notoriamente un uomo di ghiaccio, ma per convincere i banchieri della punta di Manhattan della forza della propria linea non ha mancato di mettere sul tavolo tutta la sua credibilità personale.

Il “glaciale” presidente della Bce aveva comunque preso le mosse da una classica lecture di central banking, pienamente apprezzata da due esaminatori di sicuro peso: l’ex insegnante di Draghi, il vicepresidente della Fed Stanley Fisher e l’ex governatore della Bank of England, Mervyn King. All’Economic Club ricordano ancora alcune performance di Alan Greenspan, presidente (newyorchese) della Bce, fra i player della Wall Street “esuberante”. Draghi ha scelto registri opposti: anche quando – per un attimo – ha danzato con eleganza sul filo dell’ambiguità.

Giovedì scorso il presidente della Bce si era riferito al reinvestimento del principal solo dal programma detto APP (come da testo letto in conferenza) oppure anche di quanto impiegato in altri programmi di liquidità (SMP, TLTRO e quant’altro), come da risposta ai giornalisti post lettura del testo ufficiale? È questa dissonanza – appena percepibile, ma non banale – a testimoniare la presenza di quel dissenso che il relatore ha valutato come indispensabile nel processo decisionale di una banca centrale. Ma è un dissenso tanto indispensabile, in prospettiva, da portarlo a intravvedere se stesso come vero momenti di dissenso in caso di necessità? A New York è stato chiaro che la partita nella stanza dei bottoni Bce non è destinata a concludersi rapidamente: e che Draghi (con i mercati alle spalle) non sarà certamente un osso facile per Jens Weidmann, capofila dei banchieri del nord avversari di ogni allentamento monetario pro-ripresa nell’eurozona.