Piovono pietre su Mario Draghi, sotto forma di critiche aspre anche da parte di chi fino a giovedì scorso lo dipingeva come il miglior e più abile banchiere centrale del mondo. Ultimo ma non ultimo a unirsi alla vulgata dei critici, con toni trancianti, è stato lunedì William de Vries, capo del reddito fisso alla Kempen Capital Management, a detta del quale «Mario Draghi non ha mantenuto le promesse. Punto. Mentre alcuni analisti parlano ancora placidamente di promesse inferiori alle aspettative o di mancata soddisfazione delle altissime e irrealistiche aspettative del mercato, la conclusione dei mercati dei capitali è implacabile: Draghi non è più magico». Di più: «E l’Europa rischia il “cold turkey”, un’espressione utilizzata dagli anglosassoni per descrivere la spiacevole e anche pericolosa esperienza della sospensione improvvisa di una droga a un tossicodipendente».
Insomma, una bocciatura su tutta la linea, di fatto la trasposizione a parole di quanto il mercato ha fatto con i numeri giovedì scorso dopo la conferenza stampa del numero uno dell’Eurotower: i rendimenti obbligazionari tedeschi sono saliti di quasi 20 punti base, i Btp italiani di oltre 25 e, in media, le obbligazioni europee con scadenze lunghe hanno perso oltre il 2,5% del valore. «Tutto perché la Bce ha deciso di ridurre il tasso sui depositi di soli 10 punti base, mentre tutti ci aspettavamo almeno 15. Deve essere l’incubo di ogni banchiere centrale, soprattutto dopo che l’euro ha guadagnato il 3% sul dollaro, creando ulteriori aspettative deflazionistiche», ha aggiunto William de Vries alla Cnbc. Il quale, però, conclude così il suo pensiero: «Forse Mario Draghi non ha perso la sua magia, ma si potrebbe pensare che abbia perso le staffe durante l’ultima riunione del Consiglio direttivo. Adesso ha un serio problema di comunicazione, poiché la sua forward guidance dell’ultima riunione aveva portato le aspettative dei mercati dei capitali a un livello che ora sappiamo essere irrealistico».
Insomma, la magia, l’effetto placebo infinito del “whatever it takes” del 2012 lanciato a Londra non c’è più. E lo conferma anche l’azienda di brokeraggio Berenberg, la quale ha dichiarato che «come la Fed all’inizio di quest’anno, la Bce ha fatto in modo di confondere i mercati e il pubblico. Da qui in avanti, i mercati tratteranno le parole del presidente Mario Draghi e di alcuni suoi colleghi con molto più scetticismo di prima». Insomma, la luna di miele se non è finita, certamente appare in crisi. Dunque, difetto di comunicazione, errore politico nel promettere misure inapplicabili o, come faceva notare nel suo interessante retroscena di lunedì scorso Luca Passoni su queste pagine, all’interno del board Bce la guerra senza fine fra Draghi e Weidmann potrebbe essere arrivata allo stage finale, con Wall Street che tifa apertamente per il presidente dell’Eurotower?
Io ho una mia idea al riguardo, la quale tiene insieme tutte queste variabili, ma che si concentra su un punto finale differente: ovvero, ciò che Draghi ha detto a New York venerdì scorso parlando all’Economic Club rischia di cambiare tutto. E in peggio, perché si tratta di un azzardo senza precedenti. Partiamo da un retroscena fornito dalla Reuters, in base alla quale la scelta di Draghi nelle settimane precedenti al meeting del 3 dicembre scorso era frutto di una strategia messa in campo con il suo capo economista, Peter Praet: alzare le aspettative del mercato nei confronti del Qe al fine di giungere a ridosso della riunione con i falchi oltranzisti messi in un angolo e costretti ad accettare misure estreme. Così però non è stato, perché il Consiglio direttivo avrebbe deciso che il mercato andava deluso questa volta, visto che l’outlook economico era migliorato e le previsioni sull’inflazione non erano così brutte come si temeva. In parole povere, Weidmann si è messo di traverso e la Bce ha deciso di creare a tavolino una modesta sell-off di mercato per concedere alla Fed un po’ di fiato in vista del rialzo dei tassi, lasciando che l’euro si apprezzasse per la delusione seguita alle parole di Draghi.
Il problema è stata la sovra-reazione dei mercati, soprattutto quelli azionario e obbligazionario sovrano, visto che il mondo intero si è trovato giovedì scorso alle 15:15 come se fosse posizionato long sul Lehman Brothers il 12 settembre del 2008. Mario Draghi non poteva permetterselo, occorreva fare qualcosa. E in fretta. Tanto in fretta che il giorno seguente al meeting, venerdì 4 dicembre, il numero uno della Bce era appunto all’Economic Club di New York, dove ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Non ci possono essere limiti particolari all’uso che possiamo fare degli strumenti a nostra disposizione. Sento di poter affermare con fiducia, e senza nessun autocompiacimento, che garantiremo il ritorno dell’inflazione al 2% senza ritardi perché stiamo usando strumenti che centreranno l’obiettivo e perché possiamo, in ogni caso, rafforzare il ricorso agli strumenti che abbiamo, se necessario». Insomma, messaggio chiaro ai mercati: Qe no limits.
E in cosa consiste questo “no limits”? «Il rafforzamento degli stimoli deciso dalla Bce implica un aumento di 680 miliardi di euro sulle liquidità del sistema economico dell’area euro da qui al 2019, pari al 6,5% del Pil», ha spiegato lo stesso Mario Draghi, fornendo una stima dell’effetto combinato della proroga di sei mesi al piano di acquisti di titoli (da 60 miliardi di euro al mese) e della decisione di reinvestire i proventi dei titoli giunti a scadenza. E quando Mervyn King, ex governatore della Bank of England, gli ha chiesto se il discorso tenuto a New York fosse stato preparato deliberatamente per placare la reazione dei mercati del giorno precedente, Mario Draghi ha prima balbettato e poi candidamente ammesso di sì con queste sei parole: «Non esattamente… beh, certo che sì».
Il guanto di sfida a Weidmann e Schauble era lanciato? Pare di sì, ma ora, a mio modesto avviso, entrano in gioco quattro variabili. La prima, dopo un così palese disvelamento delle divisioni all’interno del board della Bce e dopo l’inversione a U di Draghi in meno di 24 ore, la prossima volta che il numero uno avrà bisogno di blandire o calmare i mercati, questi gli crederanno? Insomma, è in ballo la cosa più importante per una Banca centrale: la sua credibilità. Seconda variabile, Draghi sta apertamente giocando una partita di sponda con Wall Street contro il club rigorista all’interno della Bce, ovvero il leader della Banca centrale europea sta adottando politiche che il nucleo forte della stessa non accetta e non condivide, mentre sono gli americani a tifare per lui. È normale e sano questo?
Nella più classica delle coincidenze, lunedì Goldman Sachs – ex datore di lavoro di Mario Draghi – ha rivisto le sue valutazioni sul suo trade dell’anno, ovvero lo short sull’euro ed è giunta a queste conclusioni: nell’arco di 3,6 e 12 mesi la valuta europea sul dollaro è prevista a 1.07, 1.05 e 1.00 (prima era a 1.02, 1.00 e 0.95), mentre la valutazione per la fine del 2017 è passata a 0.90 da 0.80 precedente. Il risultato di questa mossa? Ciò che anche a Draghi fa comodo, l’euro è sceso subito sotto quota 1,08. Gioco pericoloso, mister President.
Terza variabile, la più preoccupante e di largo spettro. Guardate il grafico a fondo pagina, ci mostra come reagirebbe nel trading il cosiddetto General Collateral in caso di un aumento di un quarto di punto della Fed il prossimo 16 dicembre, stando all’elaborazione di E.D. Skyrm della Wedbush. Di fatto, si sostanzierebbe in un drenaggio dal mercato di liquidità fino a un massimo potenziale 800 miliardi di dollari!
Le stime infatti sono due, una muove il General Collateral di 8 punti base per 100 miliardi e l’altra di 2.7 punti base per 100 miliardi, il tutto parametrato a quanto il Qe2 ha mosso i tassi repo. Bene, il drenaggio di liquidità andrebbe da 310 a 800 miliardi di dollari. Per capirci, il Qe2 che mandò l’indice Standard&Poor’s alle stelle tra novembre 2010 e giugno 2011 fu di “soli” 600 miliardi. Capito cosa significa, questo? Dopo le parole di Draghi a New York il mercato ha prezzato l’off-setting di quella liquidità drenata dalla Fed grazie all’ampliamento del piano della Bce, visto che i 680 miliardi di euro calcolati nelle stime di Draghi come iniezione nel sistema vanno a coprire quasi al centesimo gli 800 miliardi di dollari che la Yellen toglierà dal sistema, alzando i tassi di 25 punti base tra dieci giorni. Insomma, il destino del mondo ora è in gran parte sulle spalle di Mario Draghi e della Bce, quello di Wall Street paradossalmente per primo. Ecco spiegato il tifo dei banchieri Usa per il governatore.
Ed ecco la quarta è ultima variabile, casualmente nata da un report di Deutsche Bank rispetto al rialzo dei tassi negli Usa, ormai previsto da tutti per il 16 dicembre prossimo. Il primo grafico a fondo pagina, ci mostra come dopo la recente revisione del Flow of Funds da parte della Fed, la ratio debito totale/Pil degli Usa sia salita dal 330% al 350%. Quale sarebbe il “tasso di interesse di equilibrio” in questa dinamica? Per Deutsche Bank, con una crescita nominale del 3% e una ratio debito/Pil del 300%, il tasso nominale implicito di equilibrio sarebbe dell’1%, perché con questo tasso, serve il 100% di crescita del Pil per i costi degli interessi sul debito.
La tabella a fondo pagina, ci dice altro, però. Ovvero che con la ratio debito totale/Pil al 350% e con la crescita a circa il 2% ma in discesa, ovvero nella reale situazione attuale degli Usa, il tasso di interesse di equilibrio sarebbe a circa 0,57%. Il che significa che servirebbero due aumenti di un quarto di punto, nel breve tempo: per arrivare a cosa, però? Al Qe4, perché il sistema non reggerebbe una distorsione simile. E a confermarlo non è solo la discrepanza tra corsi azionari, rendimenti obbligazionari e dati macro Usa da recessione in molti settori, ma anche gli spread sugli swap valutari, come ha fatto notare la Banca per i regolamenti internazionali (Bri) nel suo ultimo report, pubblicato lo scorso weekend.
Sembra complicato, ma ve lo rendo immediato e intuitivo: a quanto ammonterebbe la carenza di dollari sul mercato in caso di rialzo dei tassi della Fed? Bene, sono appunto quegli spread sugli swap valutari a darci un’indicazione. Prendiamo il cross dollaro/yen e vediamo che il premio del biglietto verde sui mercati swap monetari si è ampliato sostanzialmente, soprattutto nel confronto diretto con la valuta giapponese, questo dopo che le possibilità di un rialzo dei tassi tra pochi giorni hanno visto salire il consensus al 70%. Bene, alla fine di novembre lo spread su basi swap tra yen e dollaro era -90 punti base, di fatto riflettendo una criticità enorme: i più di 300 miliardi di gap di finanziamento delle banche giapponesi in divisa statunitense. Per la Bri, nonostante il finanziamento continui a essere disponibile, una base negativa così ampia nello swap indica potenziali distorsioni di mercato e questo porta appunto a porre domande su quali potranno essere le condizioni del finanziamento in dollari in caso di un aumento dei tassi onshore Usa.
Insomma, per parlare come mangiamo, tra una settimana la Fed se alzerà i tassi, rivelerà al mondo quale sia la reale entità della scarsezza di finanziamento in dollari. L’ultimo grafico è proprio della Bri ed è relativo al 2009, quando la Banca centrale delle banche centrali scrisse che «se tutte le liabilities verso istituzioni non bancarie vengono trattate come finanziamento a breve termine, la stima sale sulla parte alte del bound e vede la scarsità di dollari sul mercato arrivare fino a 6,5 triliardi di dollari». Uno scenario un po’ diverso dall’offsetting che Fed e Bce stanno disegnando e di cui vi ho parlato prima, non pensate? Tanto più che il debito finanziato in dollari a livello globale è salito drammaticamente negli ultimi cinque anni, quindi quel gap sarebbe sicuramente molto ma molto più grande.
A cosa stiamo andando potenzialmente incontro? Alla più grande margin call globale sul dollaro di tutti i tempi, nulla in confronto a quella scatenata dal crollo Lehman Brothers che portò proprio la Fed a lanciare un salvataggio globale aprendo linee di swap illimitate verso tutte le Banche centrali che avessero una scarsità di dollari. Questo è l’azzardo implicito: la Fed alzerà davvero i tassi solo per dimostrare al mondo che la sua economia è sana, salvo rischiare di dover riaprire al volo linee di credito come se piovesse per evitare un altro 2008 al quadrato? Forse sì, perché è il modo migliore di poter operare il Qe4 e andare avanti a colpi di doping monetario. A quel punto, però, il Rubicone sarà varcato. Una volta per tutte.