Aumentano, giorno dopo giorno, i segnali di nervosismo sui mercati. Anzi, in alcuni casi, di vero e proprio panico preventivo. Guardate i grafici a fondo pagina: il primo ci mostra come quella creatasi questa settimana sia la più grande posizione speculativa long sui futures del Vix mai vista, quindi implicitamente una scommessa al ribasso sugli indici azionari, essendo quell’indicatore la cartina di tornasole della paura e della volatilità; il secondo, invece, ci mostra come il sentiment di chi opera sui mercati sia drammaticamente cambiato, passando dall’ottimismo a oltranza della seconda metà del 2014 alla quasi certezza che un crash sulle equities sia ormai una questione di “quando” e non di “se”. Con la gran parte delle aziende quotate sull’indice S&P’s 500 che hanno già presentato i loro conti, gli investitori stanno riposizionandosi: la crescita degli utili è salita del 4%, mentre le entrate solo dell’1% e ora ci si ritrova a fare i conti con delle guidance aziendali che parlano la lingua di una prospettiva negativa, sintomo che le guerre valutarie in atto – e destinate a intensificarsi – andranno a erodere la crescita di qualche punto percentuale. 



Insomma, sui mercati sta arrivando l’inverno, dopo l’estate garantita dalla Fed e l’autunno vissuto di rendita? «Assolutamente sì, nel breve termine l’inverno arriverà in Europa, mentre gli Usa lo eviteranno ancora per un po’. Stranamente, sta muovendosi da Sud verso Nord, visto che finalmente la Grecia sta per affrontare la scelta che era inevitabile fin dall’inizio della sua crisi», sentenzia Michael Ashton, seguitissimo blogger di E-Piphany. Ma il problema è che la situazione è talmente complessa e pericolosa che gli stessi banchieri, quelli che usualmente nascondono la verità dietro la maschera dell’ottimismo, cominciano a parlare pubblicamente di un’inversione al ribasso per le prospettive economiche globali. 



Qualche esempio? Il prezzo del petrolio potrebbe presto toccare quota 20 dollari al barile, la Grecia uscirà dall’eurozona, spedendo l’euro/dollato a 0,90 e soprattutto la prospettiva di una contrazione per l’economia globale per qualcosa come 2 triliardi di dollari quest’anno. Cominciamo dal petrolio, il quale nelle ultime due settimane sembrava aver toccato il mitologico “bottom” e innescato un rally rialzista, salvo dover fare i conti con la speculazione al Nymex che sfrutta le chiusure per mettere in corner la concorrenza e modificare artatamente le valutazioni e ieri con il dato delle scorte Usa, salite la settimana scorsa di 4,868 milioni di barili, che ha spedito i prezzi ancora al ribasso. Bene, per Citibank dobbiamo invece prepararci ad un altro calo, il cui picco al ribasso potrebbe essere appunto in area 20 dollari al barile. 



Perché? «Il recente rally è stato una burla, non un punto di svolta sostenibile. Solo il calo degli impianti estrattivi negli Usa, i continui tagli del capex nel comparto upstream, la lettura di dati tecnici e le ricoperture delle posizioni short hanno sostenuto il balzo del +8,1% registrato a fine gennaio e nella prima settimana di febbraio. Il problema è che i fattori di mercato sul breve termine sono negativi e ci prospettano ulteriore pressione per i prossimi due mesi, se non di più. Il mercato del petrolio dovrebbe trovare il “bottom” tra la fine del primo trimestre e l’inizio del secondo a un prezzo significativamente più basso del range dei 40 dollari, dopo il quale i mercati potranno cominciare a bilanciarsi, prima con la fine dello stoccaggio di riserve e poi con l’inizio del loro utilizzo. E’ impossibili dire con precisione quale sarà il punto di “bottom”, il quale infatti potrebbe essere addirittura attorno al range dei 20 dollari per poco tempo, vista l’extra-offerta e l’economicità della politica di stoccaggio». E la verità è che molte aziende non possono permettersi il lusso di chiudere i loro impianti, visto che sono esposte enormemente alla leva e stanno lottando anche soltanto per servire il debito esistente: quindi, devono continuare a pompare per garantirsi entrate che vadano a tamponare i loro obblighi finanziari con i creditori. Non lo dico io, ma la Banca per i regolamenti internazionali, a detta della quale «vista l’alta concentrazione di debito che grava sul settore, un calo nel prezzo del petrolio indebolisce i bilanci dei produttori e contrae le condizioni del credito, un mix che potenzialmente può esacerbare il calo ulteriore della valutazione come risultato, ad esempio, della vendita di assets petroliferi. Secondo, in termini di flussi, un pezzo più basso riduce i flussi di cassa e aumenta il rischio di crisi sulla liquidità, situazione che può rendere un’azienda incapace di pagare gli interessi sul debito. E proprio gli obblighi di servizio del debito potrebbero indurre a una prosecuzione della produzione fisica di petrolio per mantenere flussi di cassa, ritardano la riduzione dell’offerta nel mercato». Insomma, se il prezzo del petrolio non sale e significativamente quest’anno, molte aziende andranno a pancia all’aria e usciranno dal mercato con i piedi davanti: e ogni istituzione finanziaria esposta al debito di queste aziende o su derivati energetici rischia di pagare pesantemente questa situazione.

Veniamo ora allo stato di salute dell’economia globale, partendo dal grafico a fondo pagina, il quale ci mostra plasticamente come il Baltic Dry Index ieri abbia sfondato il record storico del 31 luglio 1986 di un punto, attestandosi al ribasso a quota 553. E molte banche d’affari cominciano a pronosticare che questo sia soltanto l’inizio, ad esempio Goldman Sachs, la quale attraverso David Kostin ha previsto che la crescita delle vendite per le aziende quotate all’S&P’s 500 nel 2015 sarà pari allo zero per cento. E c’è chi va giù più duro, come Bank of America, per la quale l’economia mondiale si contrarrà appunto di 2,3 triliardi di dollari quest’anno a causa del rafforzamento del dollaro: sarebbe la sesta volta dal 1980 che il Pil nominale globale si contrae riferito al dollaro e la seconda più netta contrazione dopo quella del 2009, destinata ad avere implicazioni sui mercati, soprattutto per quanto riguarda proprio il prezzo delle commodities. E non stiamo parlando di un dato irrilevante, visto che quella cifra equivale al 3,2% del Pil globale del 2014 o, per metterla in prospettiva, l’economia della Gran Bretagna. Oltretutto, dalla pubblicazione del suo report Year Ahead a oggi, Bank of America ha cambiato di pochissimo le sue stime per la crescita reale, visto che si attende un’accelerazione della crescita reale a livello globale del 3,5% quest’anno contro il 3,3% del 2014 e il numero di beni e servizi prodotti accelererà a un ritmo ancora più veloce, peccato che la maggior parte di questi verranno prodotti in nazioni la cui valuta si è deprezzata rispetto al dollaro e tendenzialmente continuerà a farlo nel medio termine. 

E il calo del prezzo delle commodities ha due conseguenze dirette: incoraggia gli investitori finanziari ad abbandonare le materie prime, spostandosi verso assets più sicuri e rafforza ulteriormente il dollaro, il quale ha sua volta schiaccia ulteriormente al ribasso i prezzi delle commodities anche se questi non calano se misurati in valute estere differenti. L’ultimo link sta già funzionando, visto che il dollaro continua a rafforzarsi verso nazioni e aree che stanno espandendo la loro politica monetaria – come Giappone e Ue – e contro le valute dei Paesi esportatori: insomma, lo stesso fattore che sta drenando dal Pil nominale globale 2,3 triliardi dollari è coinvolto anche nel deprezzamento delle commodities, visto che la correlazione tra la crescita del Pil globale e il cambiamento annuale dei prezzi di petrolio e rame dal 1981 è rispettivamente del 29% e del 59%, mentre dal 2000 a oggi è del 67% e del 65%. 

C’è poi un’altra implicazione, ovvero che l’economia americana diventerà sempre più importante come conseguenza del rafforzamento del dollaro: stando a calcoli di Bank of America, la percentuale statunitense nel novero dell’economia mondiale toccò il minimo del 23,5% nel 2011 ed è rimasta più o meno a questi livelli finora, ma nel passato le fluttuazioni del dollaro portarono a scostamenti di 10 punti percentuali di questa quota, quindi entro il 2016 ci si attende un rialzo al 27% del totale per l’economia americana. 

Veniamo poi alla Grecia, al centro dell’attenzione economica e finanziaria – prima ancora che politica – ormai da settimane. Stando agli analisti di Morgan Stanley, se si arrivasse veramente allo scenario più estremo, ovvero l’uscita di Atene dall’eurozona, non solo il concetto di irreversibilità dell’euro subirebbe un colpo mortale e potrebbe innescare i prodromi di un collasso dell’eurozona stessa, ma l’euro/dollaro potrebbe schiantarsi a 0,90. 

 

Direte voi, epilogo improbabile. Lo penso anch’io, ma non impossibile, tanto che i primi a essere abbastanza preoccupati dell’ipotesi di un ritorno alla dracma sono proprio i greci, i quali nell’ultimo trimestre hanno cominciato a comprare oro fisico a ritmi sempre crescenti, come conferma Lisa Elward, capo delle vendite alla Royal Mint britannica: «C’è stato un notevole aumento delle richieste in questo periodo, ma è normale, visto che notiamo sempre un’extra-domanda durante periodi di incertezza politica o finanziaria». A livello interno, la domanda aurea greca sta viaggiando attualmente al doppio di quella del quarto trimestre del 2014: la Bank of Greece ha venduto 5849 monete d’oro nel mese di gennaio, contro le 7857 dell’intero ultimo trimestre del 2014. 

Matthew Turner, analista alla Macquarie Bank, spiega così il fenomeno: «L’unica cosa che tutti sanno sull’oro è che è una buona cosa da detenere se la tua moneta sta per svalutarsi, quindi è assolutamente comprensibile che i greci stiano comprandolo, per il semplice fatto che hanno paura di perdere i loro soldi. Durante i periodi di incertezza monetaria la gente pensa sempre che l’oro sia un’aggiunta utile ai loro portafogli». Inoltre, se Atene uscisse dall’eurozona, l’eventuale addio di altri Paesi dipenderebbe sostanzialmente da due sviluppi binari: i cittadini con depositi bancari penseranno che la loro nazione potrebbe lasciare l’euro? L’area euro garantisce l’integrità del sistema bancario? Per prevenire un contagio servirebbe una chiusura a doppia mandata, visto che un’assicurazione del fatto che i depositi bancari sono garantiti dalla Bce sarebbe completamente inutile se l’opinione pubblica si convincesse che la sua nazione sta per lasciare l’euro. In parole povere, per quanto la Bce possa rassicurare, nella mente dei cittadini sarebbe razionale ritirare i propri soldi il prima possibile, magari ricordando il precedente occorso con la rottura dell’unione monetaria tra Slovacchia e Repubblica Ceca nel 1993, quando le rassicurazioni dei due governi non ebbero alcun effetto e i correntisti corsero in banca a ritirare il denaro. Ed è un processo auto-alimentante che può portare, come extrema ratio, all’applicazione da parte dei vari governi nazionali di controlli sui capitali, di fatto la vera leva del panico. 

Insomma, il precedente del Grexit per le altre nazioni farebbe più danni dell’uscita stessa della Grecia, visto che il meccanismo di trasmissione non passa attraverso i bond sovrani, i titoli azionari o i mercati valutari, ma attraverso le banche: e se la Grecia uscirà dall’euro, la perdita del valore reale dei depositi bancari ellenici incoraggerà i cittadini-correntisti di altri Paesi a ritirare i loro soldi, prima che sia tardi. E non si tratta di problemi di solvibilità della banche, ma di timore per uno sviluppo incerto, esattamente come accaduto con le bank-run occorse in Scozia prima del referendum del 2014. 

Ma una cosa mi spaventa davvero, nonostante non abbia sentito nessuno prenderla in considerazione: se davvero l’euro/dollaro si schianterà a 0,90 come conseguenza dell’uscita della Grecia dall’eurozona, avete idea del grado di implosione che subiranno i circa 26 triliardi di dollari di contratti derivati esistenti e direttamente legati al valore della moneta unica europea? Sono il solito catastrofista? Forse, ma ricordatevi che la grande stampa che oggi vi rassicura, vendendovi la balla dell’America in ripresa turbo, è la stessa che si è accorta della crisi soltanto quando ormai Lehman Brothers era a zampe all’aria. 

E attenzione, perché il segnale estremo che qualcosa potrebbe andare davvero storto sui mercati, la mitologica bandiera rossa, ci è fornito dalla comparsa di speculatori al ribasso sull’indice azionario giapponese, come vi dicevo la scorsa settimana e come mostra questo grafico, per la prima volta da due anni. Un azzardo, quello compiuto dagli hedge funds più aggressivi, visto che la Bank of Japan e il Fondo pensioni nipponico di fatto forniscono un floor ai prezzi dei titoli, essendo pronti a intervenire e comprare sui minimi in caso il Nikkei dovesse entrare davvero in corso ribassista. Una strategia pericolosa che però, paradossalmente, a differenza della politica di Shinzo Abe e soci, si basa sui fondamentali, visto che dopo mesi di diluvio di liquidità le aspettative inflazionistiche giapponesi tendono verso breakevens al ribasso e i dati macro dell’economia non conoscono affatto miglioramenti, a partire dalle dinamiche salariali. 

 

E quei fondi speculativi sono gli stessi che sono stati long sull’indice di Tokyo per due anni, aiutando a creazione e la sostenibilità di un rally di quasi il +60%, ma a gennaio anno deciso di cambiare strategia, sostanzialmente basando la loro scelta sulla capacità stessa della Bank of Japan di riuscire a gestire in maniera prolungata una fornitura di liquidità di quel livello e a quale prezzo. A novembre il Nikkei è cresciuto del 13%, spinto da due eventi accaduti il mese prima: la decisione della Banca centrale di iniettare liquidità addizionale e l’annuncio del Fondo pensioni governativo (Gpif), il più grande al mondo, di raddoppiare le sue detenzioni di titoli giapponesi. Follie keynesiane all’ennesima potenza, altro che malinvestment, ma da allora il rally è andato in stallo, con l’indice attualmente giù dell’1,6% dal suo picco più recente, quello dell’8 dicembre e con gli investitori stranieri che solo nel mese di gennaio hanno venduto titoli per un controvalore di 7,6 miliardi di dollari, stando a dati del Ministero delle finanze nipponico. 

Insomma, la speculazione sta scommettendo al ribasso contro il Gpif, un fondo con detenzioni per 1,07 trliardi di dollari e intenzionato a vedere crescere il suo stock di titoli in portafoglio dal 12 al 25%, una scelta che in teoria necessiterebbe di acquisti di titoli per circa un triliardo di yen al mese per i prossimi tredici mesi, ma che sconta la politica storica del Fondo, ovvero comprare sui minimi: attualmente il Nikkei è a quota 17652 punti ed è generalmente condivisa l’ipotesi in base alla quale il Gpif comincerà a comprare attorno a quota 17000. Inoltre, con la loro scelta gli hedge funds stanno anche cercando di liberare liquidità per proteggersi da rischi potenziali sullo scenario mondiale, come l’aumento dei tassi da parte della Fed o proprio l’addio della Grecia all’euro, ma di base resta la convinzione che le promesse di crescita economica del governo, a fronte di rischi enormi per la stabilità finanziaria, non verranno mantenute. 

Per Vivek Misra, equity strategy di Societe Generale per l’Asia, «è la fine della luna di miele dell’Abenomics». Pregate di no, altrimenti altro che crisi greca. Per tamponare il fallout di un evento simile servirebbe solo una cosa, una guerra. E forse Barack Obama, scherzando con il fuoco russo o chiedendo poteri speciali nella lotta all’Isis, sta proprio pensando a questa estrema ipotesi.