Ancora una volta i mercati hanno smentito le previsioni. Il secco no della Germania al documento inviato da Alexis Tsipras a Bruxelles non ha provocato un tracollo dei mercati azionari, né tantomeno dell’euro o dei titoli di Stato dell’Eurozona. È possibile che la situazione, in costante movimento, riserva altre sorprese prima del weekend, ovvero il tempo-limite per consentire un rinnovo qualsiasi dei prestiti di Atene così come concordati a suo tempo con la Troika. Ed è altrettanto possibile che l’atteggiamento delle Borse, quasi impermeabili al “dramma”, sia il frutto dell’incoscienza o della convinzione che, in qualche maniera, si troverà una quadra a una situazione critica. Ora, in attesa di novità, non resta però che da registrare che, per dirla con Alessandro Fugnoli di Kairos partners, “la minaccia greca di uscire dall’euro sembra non suscitare nemmeno uno sbadiglio nelle borse”. Perché?
A posteriori, come accade ai commentatori economici così come ai giornalisti sportivi, non è difficile spiegare le reazioni dei mercati, anche quando, a rileggere le cronache delle ultime settimane, è davvero sorprendente che Piazza Affari si mantenga in terreno positivo nonostante l’intransigenza di Wolfgang Schaeuble. Pagine e pagine dedicate alla teoria dei giochi, in cui dovrebbe eccellere il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis, dal “dilemma del prigioniero” alla scelta tra “la ragazza bionda e le tante ragazze brune” bene illustrate da Il Corriere della Sera, sono destinate a finire al macero di fronte alla strategia del ministro delle Finanze di Berlino, che ha scelto la regola del panzer: io vado avanti, convinto come sono che tu ti farai più male di me. Guai, insomma, a sottovalutare il rispetto dei tedeschi per le questioni di metodo: il sollen kantiano non ammette eccezioni.
Ovvero, non si può consentire ad Atene di conquistare vantaggi minacciando trasgressioni alle regole già fissate in passato. Di “sconti” (forse) si potrà parlare solo dopo l’accettazione degli accordi precedenti. Al di là della forma, del resto, ci sono evidenti ragioni politiche, sia in Germania che altrove, che giustificano il no a Tsipras: qualsiasi revisione degli accordi dovrebbe comunque passare al vaglio del Parlamento tedesco, dove Angela Merkel alle prese con la marea montante degli euroscettici non ha alcuna intenzione di dover spiegare ai deputati perché, dopo aver assicurato che non ci sarebbero stati ulteriori sconti al debitore, avrebbe cambiato idea.
Ancor più delicata la posizione di alcuni governi, vittime dell’austerità: la Spagna di Mariano Rajoy, in piena ripresa ma con uno spagnolo su quattro disoccupato, avrebbe molte difficoltà a spiegare agli elettori che la strada maestra passa per i sacrifici compiuti in questi anni invece dell’ultimatum di Podemos!, l’alleato madrileno di Tsipras, che si accinge a contestare i pilastri della politica fiscale benedetta da Bruxelles. Lo stesso vale per il Portogallo, l’Irlanda e a maggior ragione per l’Italia, goffamente chiamata in causa da Varoufakis “perché in condizioni simili a noi”.
Insomma, salvo colpi di scena, la Blitzkrieg di Schaeuble e Angela Merkel promette di tradursi in una grande vittoria campale. Non c’è stata la temuta saldatura tra le posizioni di Italia e Francia, presto promosse all’esame di riparazioni dei conti, e la Grecia. Non c’è stata nemmeno la “comprensione” degli sherpa del Fondo monetario internazionale, che pure ha già fatto ammenda sugli errori commessi dalla Troika. E Mario Draghi ha fatto subito capire che la Bce non era affatto disposta a favorire la finanza creativa dei Tsipars boys. Per una ragione, soprattutto: herr Draghi da anni si batte per un’integrazione sempre più stretta del governo dell’Europa, sperando che, prima o poi, i paesi mettano in comune politica fiscale, regole sul mercato del lavoro e dell’impresa, come si dovrebbe in uno Stato federale. La pretesa di Tsipras di giocare da solo (ma con i soldi altrui) non poteva andargli a genio. Ma, soprattutto, contro il gioco di Atene hanno pesato due fattori.
Innanzitutto, la ripresa economica, anche grazie agli stimoli del prossimo Quantitative easing. La crisi greca, nel 2011, era piombata su un Continente avviato alla recessione, in cui la caduta del Pil metteva a grave rischio la tenuta dei conti pubblici e la capacità di paesi come l’Italia di far fronte al servizio del debito. Oggi, complici la caduta dei tassi e il ritorno seppur timido della crescita, il rischio che il default greco possa innescare un collasso della moneta unica è valutato quasi a zero. Anche perché nel frattempo l’Ue si è dotata di nuovi strumenti.
Anche la situazione geopolitica, infine, si è ritorta come un boomerang contro Atene, che ha confidato fino all’ultimo nella comprensione di Washington, preoccupata dall’avvicinamento della Grecia a Mosca. Ma quando il gioco si è fatto duro, gli Usa hanno scelto di non complicare la vita a Bruxelles, memori dei problemi che ha comportato il debito greco dal 2011 in poi per la compattezza del fronte dell’economia globale.
Insomma, austerità promossa. O no? In realtà, al di là degli errori garibaldini di Tsipras, che comunque avrà ancora modo di limitare i danni e di mantenere alta la sua reputazione in patria e fuori, i problemi restano intatti. A partire dalla constatazione, scontata, che Atene non sarà mai in grado di ripagare il debito che, fra l’altro, già gode oggi di condizioni eccezionalmente favorevoli. Se si va al di là della vernice diplomatica, emerge che non solo tra le cause del collasso greco c’è una terapia sbagliata imposta dalla Troika, ma che le prospettive future della Grecia, senza una robusta iniezione di capitali da parte dell’Eurozona, restano precarie.
Non è affatto campata per aria la richiesta di Atene di dimezzare l’obiettivo del surplus di bilancio dal 3% concordato con la Troika. Anzi, sarebbe saggio andare, non solo in Grecia, ben più in là per accelerare i tempi di una ripresa che rischia di essere comunque fragile. Ma, in assenza di un’azione politica che vada al di là dei tagli, l’Europa si condanna a una crescita zoppa, per ora mascherata dai vantaggi del calo del petrolio.
In questo quadro il calo dell’euro, sbandierato come una mossa geniale, e la monetizzazione del debito pubblico (vedi Qe) sono solo la presa d’atto che l’Europa si va impoverendo senza saper mettere in atto le riforme strutturali (aumento della produttività e della flessibilità dei fattori) necessarie. E non per colpa di Tsipras.