La memoria lasciata ieri alla Camera dal presidente dell’AssoPopolari, Ettore Caselli, è più lunga di quella depositata tre giorni fa dal leader delle Bcc, Alessandro Azzi, ma non si conclude con un analogo impegno all'”autoriforma”, esplicito e articolato. Una contromossa, quest’ultima, cui il presidente del Credito cooperativo non era tenuto, non essendo stato l’arcipelago delle Bcc direttamente investito dal decreto-Popolari-Spa. È però un fatto che il mix di fermezza e di realismo contenuto nei 7 punti messi sul tappeto dalle Bcc hanno fornito un primo risultato a stretto giro. “Non c’è alcun decreto-Bcc in preparazione”, ha detto ieri il ministro dell’Economia, Giancarlo Padoan. Il quale ha sì avvertito che le Bcc “sono troppe e quelle che ci sono troppo piccole”, ma ha dato aperta ricevuta alle prospettive di “autoriforma” del comparto: smussando un po’ la tensione sorta fra Credito cooperativo e la Vigilanza di Bankitalia, che spinge per una radicale ritrutturazione secondo il modello di gruppo compatto.
Azzi ha invece prospettato – chiaramente e a nome dell’intera comunità – il prosieguo della razionalizzazione interna alle 400 Bcc, un’accelerazione della crescita delle piattaforme di prodotto e servizio e un salto di qualità nella governance (selezione e monitoraggio dei vertici e degli standard amministrativi). A un mese dal blitz di Palazzo Chigi, le Popolari si sono invece limitate a riepilogare tutti i dubbi e le contrarietà di natura giuridica e politico-creditizia che sostengono la loro resistenza al decreto.
Gli oggetti del contendere restano per la verità molti e non di poca sostanza. Come il Credito cooperativo, anche le Popolari respingono in dettaglio tutte le accuse implicite nella riforma imposta dal governo. Negano di essere un problema (“il” problema) per se stesse, per la stabilità (anzitutto patrimoniale) del sistema, per il credito alle imprese italiane, per l’efficienza e la legalità societaria in Italia. Elencano tutte le forzature (anche costituzionali) che – in un muro contro muro – possono rivelarsi un’insidia più per il legislatore e per l’esecutivo che per le Popolari. Giocano una carta di peso dialettico sostanziale quando ricordano che fra il 2011 e il 2014 le Popolari hanno raccolto sul mercato 9 miliardi di capitali freschi a governance attuale.
Il documento non manca, in verità, neppure di una chiusa: quella in cui viene virtualmente meno la minaccia lobbystica contenuta nella reazione a caldo dell’Associazione (“faremo di tutto per far cadere il decreto”) e si accenna a una possibile mediazione: “La trasformazione in Spa dovrebbe comunque essere accompagnata da accorgimenti finalizzati a mantenere nel tempo l’attuale carattere di public-company indipendente e andrebbe prevista non quale obbligo cogente ed ineludibile, ma solo quale ‘sanzione’, per le Popolari che non completino un percorso evolutivo finalizzato, tra l’altro, a riconoscere al voto capitario un ruolo non esclusivo, ed al voto proporzionale un ruolo non marginale”.
Le Popolari sembrano dunque aprire a un modello societario ibrido in cui il voto capitario sia più leggero e quello degli investitori istituzionali più pesante: ma forse sarebbe stato opportuno delinearlo più in dettaglio, chiamandolo “autoriforma” e facendo entrare in scena i tre saggi Alberto Quadrio Curzio, Piergaetano Marchetti e Angelo Tantazzi. In cambio le Popolari chiedono scudi anti-scalata (forse per un periodo transitorio), ma non danno la disponibilità esplicita alle aggregazioni, che rimangono il cuore di politica creditizia della questione.
Le cinque righe finiscono quindi per dire “minus quam volunt”, chioserebbe un giurista. Segno che sull’exit strategy, sulla controffensiva sostanziale, il fronte non è compatto: anche perché l’attivismo delle Procure e della Banca d’Italia negli ultimi giorni ha preso di mira 3 delle 11 Popolari oggetto del decreto. Difficile tuttavia che Padoan – o lo stesso governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – possano incoraggiare apertamente quelli che restano comunque “primi passi”. Ma prima della conversione del decreto (su cui il Governo ha preannunciato la fiducia) c’è ancora tempo. Anche se non è escluso che le prossime notizie rilevanti sullo scacchiere giungano da singoli gruppi che hanno deciso di aprire colloqui di aggregazione.