Dunque, gli Stati Uniti sono di nuovo in recessione o no? Guardando il primo grafico a fondo pagina, che compara la revisione a tre mesi delle stime annuali sugli utili al Pil reale, parrebbe di sì. Eppure Janet Yellen, parlando davanti al Senato, ha offerto una visione diversa dello stato di salute dell’economia Usa: certo, ci sono miglioramenti ancora troppo lenti e alcune variabili di cui tenere conto, ma nulla che a suo modo di vedere possa smentire la narrativa di un’America che cresce ed è fuori dalla crisi. 



Proprio sicuri? Occorre infatti guardare bene la realtà delle cose e negli Usa lo stanno facendo, tanto che qualcuno comincia ad avanzare una tesi finora inedita ma che invece io avevo prospettato un paio di settimane fa. Ovvero, c’è una sola cosa che sta bloccando la Fed dall’innalzamento dei tassi e non si tratta della scarsa crescita salariale, né del nervosismo per Grecia e Ucraina, né del deludente dato del Pil nel primo trimestre e nemmeno il rallentamento dell’economia cinese: è la paura della deflazione. La Fed, infatti, può vivere con un’inflazione sotto il 2%, ma non con un tasso che si avvicini allo zero e il secondo grafico ci dimostra come l’andamento attuale sia preoccupantemente sotto la soglia obiettivo della Banca centrale. 



Certo, solo un membro su diciassette del Fomc pensa che l’inflazione sia un grosso rischio nel medio termine, ma parlando davanti al Banking Committee del Senato martedì, la Yellen si è pronunciata in questo modo: «Preso atto che le condizioni del mercato del lavoro continuano a migliorare e che sono attesi ulteriori miglioramenti, il Comitato anticipa che sarà appropriato alzare i tassi di riferimenti quando, sulla base dei dati in arrivo, ci sarà sufficiente fiducia nel fatto che l’inflazione tornerà verso il nostro obiettivo del 2% sul medio termine». 

Insomma, il detonatore per il rialzo dei tassi è la convinzione di un ritorno alla normalità del tasso di inflazione e parlando di medio termine, questo potrà ipoteticamente necessitare di qualche anno. Il rialzo dei tassi, invece, no. Il recente crollo dei prezzi per l’energia, unito all’effetto dell’apprezzamento del dollaro nella riduzione dei prezzi dei beni importati, a detta di molti, è un chiaro segnale del fatto che l’indice principale dei prezzi al consumo andrà presto in negativo: la prossima settimana il Bureau of Labor Statistics pubblicherà il dato relativo al mese di gennaio e in molti sono certi che su base annualizzata il Cpi statunitense finirà sotto zero. La Fed ha già bollato questo fenomeno come «temporaneo», ma resta il fatto che l’inflazione core, che dovrebbe essere meno volatile, sta anch’essa calando a livelli pericolosi a circa l’1% anno su anno: negli ultimi tre mesi, questa è cresciuta a un tasso annuale solo dello 0,7%. 



E cosa implicherebbe un’inflazione core all’1% o anche più bassa? Uno sbuffo di deflazione nell’economia, cioè il rischio di colpire sia gli investimenti che le spese per i consumi, di deprimere la crescita salariale e di rendere il carico debitorio dei cittadini più oneroso. E come reagirebbe la Fed a una situazione simile? Certamente restando ferma per quanto riguarda l’aumento dei tassi, ma, se la situazione dovesse sfuggire dal controllo, anche riattivando per un po’ la stamperia, visto che il Quantitative easing per definizione dovrebbe stimolare l’inflazione al rialzo. Ma guarda un po’. E anche le aspettative inflazionistiche misurate attraverso il mercato obbligazionario sembrano dare ragione alle preoccupazioni deflazionistiche. 

C’è però, come sempre in America, l’altra faccia della medaglia e questa volta può sembrare ridicola ma non lo è. Proprio ieri, infatti, la Walt Disney Company ha annunciato di aver aumentato in modo significativo il costo del biglietto giornaliero per il suo parco divertimenti Magic Kingdom a Lake Buena Vista, in Florida. Lo scorso anno l’azienda ha venduto i biglietti a 99 dollari, un +4,21% rispetto ai 95 dollari del 2013, ma ora siamo per la prima volta sopra quota 100 dollari, per l’esattezza a 105 dollari, un aumento shock del 6,06% rispetto allo scorso anno. Ora, guardate il primo grafico a fondo pagina, ci mostra la cosiddetta “Magic Kingdom Ticket Price Inflation”, ovvero l’inflazione misurata attraverso l’aumento del prezzo del biglietto giornaliero per il parco divertimenti e la compara con il tasso di inflazione ufficiale Usa basato sull’indice dei prezzi al consumo (Cpi) tracciato e pubblicato dal Bureau of Labor Statistics. Bene, per il 2015 il tasso inflattivo misurato sui criteri Disney è al 6,06%, il secondo più alto negli ultimi nove anni e il quarto più alto negli ultimi ventiquattro anni. E con la Disney che ha appena annunciato il 27mo aumento annuale di fila del prezzo dei biglietti per Magic Kingdom, ci troviamo come un dato chiaro: per il 18mo anno di fila il tasso inflattivo misurato da Topolino ha sopravanzato e di parecchio il tasso ufficiale Usa. A oggi, l’aumento del prezzo del 6,06% rappresenta una leva pari a 8,96x rispetto all’ultimo dato ufficiale per l’inflazione Cpi, fissato allo 0,68%: siamo alla ratio più grande mai registrata nella storia comparativa tra i due. 

E non è tutto, guardate il secondo grafico: è lo scostamento medio a 5 anni tra l’inflazione misurata attraverso il prezzo dei biglietti di Magic Kingdom e il dato ufficiale Cpi, oltre a una ratio che mostra le differenze tra i due movimenti medi. Negli ultimi cinque anni, il tasso inflattivo Disney ha avuto una media del 5,08%, il triplo della media a 5 anni del tasso ufficiale Usa, il differenziale più ampio dal 1988! Da quando è stato aperto Disney World nel 1971, all’epoca il prezzo per Magic Kingdom era solo di 3,50 dollari, i prezzi per l’ingresso giornaliero sono cresciuti a una media ponderata annuale dell’8,04%, circa il doppio del dato Cpi ufficiale che è stato del 4,13% su base annua. Insomma, chi dice la verità: il Cpi con le sue categoria astruse e le sue voci a dir poco incredibili – basti dire che un proprietario di casa viene conteggiato, a livelli di spese di mantenimento dell’alloggio, come un affittuario – o la Disney con le sue politiche sui prezzi? 

Sembra una barzelletta, ma non lo è, almeno per le tasche degli americani che devono fare i conti con l’inflazione reale e non quella ufficiale. Insomma, la Fed paventa lo spettro deflattivo solo per poter prendere tempo, evitando di far schiantare i mercati più leveraged di sempre con il rialzo dei tassi e magari stampare ancora un pochino? Chi può saperlo, una cosa però è certa: l’economia Usa non è affatto messa bene, almeno rispetto alle valutazioni dei titoli azionari, lo squilibrio di cui proprio la Fed martedì ha dovuto per la prima volta prendere atto pubblicamente. Grazie a sei anni di Qe i mercati hanno macinato rallies record mentre gli indicatori macro si sono schiantati e faticano a muoversi al di sopra dello zero. 

Guardate il terzo grafico: compara il reddito medio annuale di un cittadino Usa con l’andamento dell’indice Standard&Poor’s e noterete da soli che il quadro che ne emerge è un’enorme X di sconnessione tra economia reale e mercato azionario, ovvero una correlazione negativa tra valutazione di mercato e l’abilità futura degli americani di supportare cash fows. In parole povere, il detrimento della classe media Usa è stato il market driver finanziario principale per gli investitori: insomma, meno i consumatori americani saranno capaci di guidare cash flows corporate in futuro, più le valutazioni di mercato crescono. Ma siccome queste ultime dovrebbero essere fondamentalmente basate proprio su quella capacità futura, come è possibile? La Fed e solo la Fed, il mercato è tossicodipendente da denaro facile e appena questo comincia a scarseggiare o si palesa l’ipotesi che possa cominciare a farlo – vedi il rialzo dei tassi – subito il mercato lancia segnali di allarme, mentre l’economia reale lo fa da anni ma totalmente inascoltata. 

 

 

 

Guardate il grafico a fondo pagina su dati Gallup, il principale istituto demoscopico e di ricerca Usa: bene, la scorsa settimana il suo “US Economic Confidence Index” è sceso a -2, il calo maggiore da luglio 2014 e la prima volta che l’indice presenta una media settimanale negativa da dicembre. Sia la condizioni attuali che i sotto-indici per l’outlook sono scesi, con la voce “speranza” che è calata maggiormente visto che il 27% degli americani ha detto che lo stato dell’economia è “eccellente”, ma il 29% lo ha definito invece “povero”, portando l’indice a -2 dal +2 della settimana precedente. Di più, per quanto riguarda l’outlook, il 47% degli americani ha detto che l’economia “sta migliorando”, ma il 49% ha risposto che “sta peggiorando”, facendo calare l’indice dal +3 della settimana prima. 

Cos’è successo in soli pochi giorni? Prezzi del gas aumentati di colpo? Inverno troppo freddo? Salari stagnanti o magari l’aumento dei prezzi per entrare a Magic Kingdom? O forse gli interpellati hanno solo dato un’occhiata alle riduzioni salariali nei loro piani 401? L’America sta giocando una partita di fondamentale importanza, poiché pur conscia di aver esagerato con lo stimolo – tanto da farci ipotizzare una sorta di mascheratura ufficiale di quella che è una vera e propria iper-inflazione da Qe come mostrata dal misuratore Disney – è costretta a dover calciare ancora un po’ in avanti la lattina, perché il mercato è in una condizione simile a quella pre-crisi, supportato però da fondamentali più deboli di quelli del 2008. 

C’è poi un altro dato interessante da tenere a mente quando si parla di America e delle decisioni della Fed, ovvero il sistema bancario, il quale sta ancora utilizzando trucchi contabili per nascondere le reali condizioni in cui versa. Ad esempio, molte banche statunitense ricollocano a bilancio i propri assets trasformandoli da “available for sale” (Afs), ovvero disponibili alla vendita, a “held-to-maturity” (Htm), cioè in detenzione fino a scadenza. Può sembrare un argomento poco interessante e di poco conto, ma per gli istituti è fondamentale, poiché rappresenta un modo molto efficace per nascondere le perdite che hanno patito nei loro portfolio di investimento. 

Normalmente le banche comprano bond e altre securities con lo scopo di generare un profitto su quel denaro fino a quando non dovranno ridarlo al depositario, per questo motivo sono chiamati “available for sale”, visto che la banca deve vendere quegli assets per ripagare i depositanti. Ma ecco il problema: molti di quegli investimenti hanno generato o genereranno una perdita di denaro e le banche non vogliono che si sappia, quindi li ridenominano come Htm, facendo intendere che del calo del valore dell’assets rispetto al momento dell’acquisto non si preoccupano, avendo intenzione di detenerlo a vita. Ma non è così, visto che una banca non ha il lusso di potere detenere un Treasury per 30 anni, visto che rappresenta denaro che deve ripagare ai clienti domani: pensate che questo abbia funzionato come deterrente? In un solo anno, JP Morgan ha visto salire la sua quota di bond legati a mutui Htm da meno di 10 milioni a circa 17 miliardi di dollari, una leva 1700x e quasi tutte le grandi banche Usa fanno lo stesso per nascondere le perdite. 

E sapete qual è la cosa peggiore? Che il governo non solo chiude un occhio, ma le aiuta con leggi ad hoc! I regolatori federali, infatti, recentemente hanno creato una nuova “rule” che permette alle banche di ridurre il peso del rischio che assegnano ai loro assets, di fatto trasformando il VaR in qualcosa di senza senso. Non scherzo, il Federal Financial Institution Examination Council recentemente ha dichiarato che «se un asset particolare ha le caratteristiche per essere piazzato in più di una categoria di rischio, viene assegnato alla categoria che ha il minor peso di rischio». Quindi, si permette per legge alle banche di godere di straordinaria libertà nello sminuire i livelli di rischio dei loro investimenti a bilancio, visto che ogni istituto può decidere da solo che un asset a rischio ha invece le caratteristiche di un altro come meno rischio implicito, dando una rappresentazione totalmente falsata dei propri investimenti in atto e del loro grado di pericolosità potenziale. 

 

E la reazione del mercato alle parole di martedì di Janet Yellen, ovvero il prezzare il rinvio per almeno altri due meeting della Fed del rialzo dei tassi come un rinvio sine die almeno per tutto il 2015, potrebbe essere decisamente pericolosa. C’è infatti una remota ipotesi che a giugno quel quarto di punto nelle Fed Fund Rates salga davvero e allora sarà chiaro a tutti che la strategia decisa è stata quella dell’asset repricing, ovvero uno scoppio netto della bolla piuttosto che il perdurare di uno sgonfiamento infinito. In quel caso, ci sarebbero circa tre mesi di tempo perché le istituzioni finanziarie, banche e fondi, vendano tutte le loro detenzioni ultra-leveraged a un prezzo decente prima del botto, ma vista l’interpretazione generale del mercato, altro denaro verrà piazzato da qui in poi in assets a rischio nel mercato più sconnesso dai fondamentali e basato sui multipli di sempre. A quel punto, il tonfo sarebbe davvero di quelli che lasciano a terra morti e feriti, visto che la stessa Fed ha ammesso la sovra-valutazione di molti assets e quindi anche una normale correzione dei prezzi potrebbe spazzare via l’intera capitalizzazione di mercato di molti players, gli stessi aiutati dal governo a nascondere le perdite e il grado di rischio dei loro investimenti. 

Sarà per tutto questo che ieri Crispin Odey, fondatore e manager dell’Odey Asset Management, un hedge fund che lo ha reso miliardario, ha pronunciato la seguente frase: «Per quanto mi riguarda, l’opportunità ribassista che abbiamo di fronte è più grande di quella del biennio 2007-2009 e questo anche perché la gente sta ancora guardando a quanto sta accadendo e crede che ogni evento sia isolato, sconnesso dagli altri. Il ciclo al ribasso che ci attende sarà facilmente ricordato per un centinaio d’anni e causerà un enorme danno, proprio per il fatto che accadrà nonostante i tentativi della Banche centrali di evitarlo». Tutti avvisati, per tempo.

 

P.S.: Prima la vicenda delle banche popolari che devono tramutarsi in società per azioni, con annessa speculazione e un bel decreto a seguire. Ieri l’Opa su RaiWay da parte di Mediaset, di fatto impossibile perché il decreto che permise lo sbarco in Borsa di RaiWay impone comunque il controllo pubblico delle torri. Eppure tutti i titoli legati all’operazione ieri sono volati in Borsa: anche stavolta qualcuno sa in anticipo che arriverà un decreto ad hoc? La Consob, come al solito, sembra dormire il sonno dei giusti.