Lo spread torna a cento punti, cioè come prima della crisi. Ciò vuol dire che la differenza tra il rendimento dei Btp decennali e dei corrispettivi Bund tedeschi è di appena l’1%, esattamente 1,30% contro 0,30%. Il Tesoro si frega le mani e calcola che quest’anno pagherà per interessi sul debito circa 6 miliardi in meno, stando alle stime che circolano. Un “tesoretto” niente male. Passata è la tempesta, stappiamo champagne? Calma e gesso. 



Intanto, il crollo dei tassi produce anche un effetto spiacevole sui derivati accesi dal Tesoro: secondo Maria Cannata, le minusvalenze teoriche erano salite a 42 miliardi sui 152 miliardi di valore nozionale. Se a scadenza queste perdite diventassero sonanti, l’effetto sarebbe pesante e il salasso potrebbe iniziare molto prima, se le minusvalenze portassero il Tesoro a versare garanzie collaterali cash alle controparti bancarie (come prevede l’art. 33 della Legge di stabilità). Ammettendo che tutte le perdite potenziali dessero luogo a garanzie, le nuove spese per interessi ammonterebbero a un miliardo e mezzo di euro. 



Attenti, allora, a far conto sul “tesoretto Draghi” (chiamiamolo così perché si deve alla politica monetaria della Bce). Certo, l’effetto tassi non è positivo solo sul bilancio pubblico, dunque per una valutazione compiuta bisogna considerare l’impatto della moneta sull’economia reale. Ciò dipende da molte altre variabili, la prima delle quali è la politica fiscale. Se sarà anch’essa espansiva, allora il prodotto lordo potrebbe marciare a un ritmo più spedito senza temere il colpo di coda dell’inflazione (anzi, i prezzi sono sotto zero e l’aumento della domanda li farebbe tornare positivi), mettendo a frutto la svalutazione dell’euro che per l’Italia è molto significativa (le esportazioni rappresentano circa un terzo del Pil). 



L’ultima volta che si è creato un “tesoretto” era il 2007. Romano Prodi guidava il governo e il ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa scoprì che le entrate erano cresciute più del previsto, nonostante le elezioni dell’anno precedente avessero gonfiato le spese. Nel timore che cominciasse l’assalto alla diligenza, TPS cercò di negare e di spegnere gli entusiasmi dello spendi e spandi. Anche perché Prodi aveva promesso di tagliare il cuneo fiscale di cinque punti, addossando direttamente al Tesoro una parte dei contributi sociali. 

La finanziaria del 2007 decise una riduzione di 2 miliardi e mezzo per quell’anno; 4,4 miliardi nel 2008 e 4,6 miliardi nel 2009. La congiuntura, dopo un biennio positivo, volgeva già al brutto e l’effetto fu nullo. Padoa Schioppa avrebbe voluto destinare il tesoretto a una riduzione del debito. Una goccia nel mare, ma gli piaceva la strategia della goccia cinese. Prodi diede retta alla Confindustria, ai sindacati e a Rifondazione comunista che faceva parte del suo gabinetto per evitare ripercussioni negative sul governo (che ci furono lo stesso un anno dopo). 

Il tesoretto odierno è inferiore e ancor più aleatorio perché non deriva da un andamento migliore del rapporto tra spese ed entrate correnti, ma da un fattore esterno che può mutare molto rapidamente. La prudenza spingerebbe a mettere in cassa quei miliardi come assicurazione contro momenti peggiori. Ma il temporeggiare non fa bene all’economia italiana. È vero che ci sono buoni segnali di ripresa nell’industria, soprattutto quella esportatrice. Tuttavia i consumi interni restano piatti se non negativi, gli investimenti languono, la disoccupazione è doppia rispetto alla media europea. 

Ai tempi di Padoa Schioppa il debito pubblico rispetto al Pil era del 103%, oggi è 132% e continua a crescere anche in valore assoluto. Standard & Poor’s valuta il debito italiano BBB-, un soffio sopra quello dei titoli spazzatura. Nel 2007 si trovava a livello AA-. Persino nel drammatico 2011 era rimasto ancora A. Le agenzie di rating guardano soprattutto alla solvibilità del debitore e questa dipende dal tasso di crescita del reddito. Dunque, è allo sviluppo che bisogna puntare per cogliere l’opportunità offerta dal calo degli interessi. Ma qui casca l’asino.

Il governo sta varando una serie di riforme dal lato dell’offerta, volte a migliorare la concorrenza; la più importante è senza dubbio quella che riguarda il mercato del lavoro (il Jobs Act). Tuttavia il problema più urgente viene dal lato della domanda interna (consumi e investimenti). E su questo la politica economica è vaga e incerta perché il bilancio dello Stato non ha margini di manovra. Particolarmente complicato è spingere gli investimenti. Sono in molti e spesso molto autorevoli, a sostenere che è questa la chiave per una solida ripresa. Hanno ragione a denunciare che la spesa per investimenti continua scendere mentre i bisogni del Paese, basti pensare alle infrastrutture, restano insoddisfatti. Ma se anche salissero gli stanziamenti e l’efficienza per miracolo balzasse agli stessi livelli europei, l’effetto sulla congiuntura non sarebbe immediato. Al contrario di quel che accade con un sostegno ai consumi aumentando i salari e riducendo le imposte sui redditi. Gli 80 euro sembravano l’inizio di una svolta, sono rimasti un’eccezione e c’è il rischio che finiscano come il cuneo di Prodi, soprattutto perché la pressione fiscale complessiva resta troppo pesante.

Il governo italiano, insomma, è sotto tiro. L’Unione europea ha concesso un po’ tempo, però la Legge di stabilità ha ottenuto solo un “semaforo giallo”, come ha detto il commissario per l’Economia Pierre Moscovici, il quale aspetta i risultati (“le riforme vanno realizzate e questo è sempre stato il punto debole italiano”, ha spiegato a La Stampa) e invita a non farsi illusioni: la crescita è ancora fiacca, appena lo 0,6% quest’anno, ben al di sotto di quel che sarebbe necessario per ridurre il debito e aumentare l’occupazione. “Col verde si passa senza problemi – insiste l’ex ministro francese – con il giallo bisogna dare un colpo all’acceleratore se non si vuole che scatti il rosso”. C’è solo un mese, di qui al prossimo Documento di economia e finanza, perché Padoan trovi l’acceleratore.