Com’è che diceva quel detto? Ah sì, “l’ottimismo è il profumo della vita”. E deve essere un giardino di zagare in questi giorni la Bce, viste le dichiarazioni di alcuni suoi eminenti membri in vista del lancio del Qe. «Iniziamo in data 1 marzo ed è molto difficile fare previsioni, credo però che per l’estate avremo le prime indicazioni, dal momento che il primo elemento da valutare sarà il volume offerto alla Bce dalle banche o da altri investitori», ha dichiarato ieri il banchiere centrale austriaco e consigliere della Bce, Ewald Nowotny, a margine di una conferenza a Budapest. Mentre poco prima, Benoit Coeure, membro del Comitato esecutivo della Bce, aveva sottolineato che il Quantitative easing è «open ended e non sarà concluso in maniera avventata, ma abbiamo anche detto che questo continuerà fino a una sostenuta convergenza verso la nostra definizione di stabilità dei prezzi». Se quindi il programma non raggiungerà l’obiettivo di inflazione attorno al 2% verso settembre 2016, «allora faremo di più», senza rilasciare commenti specifici sulla Grecia, se non un laconico «non è il momento per la Bce di entrarvi». Anche Nowotny non ha voluto commentare l’ipotesi di un’estensione del programma di liquidità straordinaria messo a disposizione delle banche greche: «È un argomento strettamente legato agli sviluppi politici, ci atterremo alle nostre regole».
Ora, Grecia a parte, al netto della sospetta e dollar-backing simpatia di Obama verso Atene e della suggestione già avanzata dall’adviser Lazard di un haircut del 50% del debito, proprio sicuri che quell’ottimismo sia ben riposto? Ho già dedicato due lunghissimi e dettagliati articoli alle criticità che vedo insite nel Qe della Bce così com’è strutturato, ma c’è dell’altro cui tocca prestare attenzione. Ci sono domande da farsi al riguardo, la più importante delle quali non è se l’esperimento riuscirà a far crescere l’inflazione o stimolare l’economia, ma se non creerà un problema inaspettato e non messo in conto, un qualcosa con cui la Fed non ha mai avuto a che fare nei suoi sei anni di diluvio di liquidità e quindi di non testato a livello di risposte precedenti.
Insomma, l’Eurotower e le varie banche centrali nazionali chiamate ad acquistare, faranno o perderanno soldi in questa operazione? Ricordiamoci infatti che quando la Fed lanciò la sua politica di tassi di interessi a zero (Zirp) e il primo round di Quantitative easing, in molti pensarono che la Federal Reserve avrebbe preso un bagno da quegli acquisti di Treasuries e securities legate a mutui. La differenza, però, tra quanto fece la Fed e quanto sta per fare la Bce è fondamentale: gli americani infatti agirono “buying the bottom”, ovvero comprarono quando i prezzi di quelle securities erano stracciati e il mercato talmente illiquido da rendere ogni transazione della Fed virtualmente un guadagno. Lo stesso avvenne con i Trasuries, i cui acquisti da parte della Fed cominciarono quando i rendimenti erano decisamente più alti degli attuali – e quindi prezzi più bassi -, di fatto creando tra il primo e il terzo round di Qe un ampio capital gain sul portafoglio obbligazionario, dirottando al Tesoro i pagamenti degli interessi sia delle mortgage securities che dei bond. La Bce e le Banche centrali nazionali compreranno invece debito con rendimenti ai minimi storici e prezzi ai massimi storici, addirittura con parecchie scadenze con yield negativo, un ambiente di operatività che rende impossibile o molto difficile ottenere un guadagno, come vedremo più avanti.
E cosa succederebbe se le Banche centrali dovessero incorrere in perdite sui loro acquisti di bond? Stati patrimoniali più ampi, al netto di perdite sul portafoglio, potrebbero ridurre il capitale disponibile sia per le Banche centrali nazionali che per la Bce: a quel punto, i governi dovrebbero ricapitalizzare le Banche centrali che stanno acquistando bond per aiutare il Paese? Ricordiamoci che le Banche centrali non possono incorrere in perdite mark-to-market, possono semplicemente detenere l’obbligazione fino a scadenza: peccato che a questo quadro già limitante per l’Europa ci sia da scontare anche il rischio di tensione sui Paesi periferici – il 28 febbraio si capirà a quale gioco stia davvero giocando Atene, visto che scade il programma di salvataggio -, un qualcosa che la Fed non ha dovuto affrontare. C’è poi da ricordare che la Fed continua a mandare segnali equivoci sul proprio rialzo dei tassi, ma se il trend del dollaro forte dovesse davvero proseguire sul medio termine, andando a intaccare l’export, allora l’opzione giugno potrebbe non essere tanto peregrina: basterà vedere l’andamento delle scommesse short sul Treasury a 30, le quali come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, sono a livelli altissimi, coadiuvate anche dei capitali esteri in cerca di beni rifugio che stanno ulteriormente comprimendo il rendimento del debito Usa. Se da qui a un paio di mesi il trend cambiasse e le posizioni invertissero il senso della scommessa, allora prepariamoci al blitz della Yellen, con tutte le conseguenze che esso comporterà.
Tornando all’Europa, venerdì scorso è successo qualcosa folle: sia il Bund a 10 anni che quello a 30 anni hanno toccato minimi storici, il primo allo 0,30% e il secondo allo 0,996%, come ci mostrano il secondo e il terzo grafico a fondo pagina: insomma, la giapponesizzazione della Germania è quasi completa. Ieri in apertura di contrattazioni si sono registrati aumenti frazionali, ma il trend non cambia: il decennale tedesco prezzava un rendimento di 30 punti base e stiamo parlando dello stesso strumento che a novembre 2014 ne prezzava 90, a maggio dello scorso anno 140 e all’inizio del 2014 si attestava sui 195 punti base.
Siamo al ridicolo sul mercato obbligazionario, per il semplice fatto che gli investitori sembrano aver scordato quale sia la natura delle obbligazioni come asset class: insomma, tradano in base all’apprezzamento del prezzo come i titoli ma dimenticano la componente di rischio presente nei bond in quanto obbligazioni sul debito. Il caso tedesco, poi, è esemplificativo. Escludendo cibo ed energia, i prezzi al consumo in Germania dovrebbero aumentare solo dell’1,1% in Germania quest’anno, anche grazie al crollo del 60% del costo del petrolio dai suoi massimi, ma una volta passata la buriana e riattivate dinamiche normali, le tendenze inflazionistiche torneranno a salire mentre quei 30 punti base di yield per il Bund dureranno per dieci anni, non per tre mesi!
Il problema, poi, è che la vulgata che vorrebbe i rendimenti così bassi dovuti alla lenta crescita europea è appunto tale, visto che durante la crisi del 2008/2009, il Bund a dieci anni prezzava un rendimento fra il 3 e il 4% e il petrolio era ai minimi storici attorno ai 33 dollari per barile. Qual è quindi il problema, anzi, “l’elefante nella stanza” per dirla in gergo finanziario? I tassi a zero, cioè l’eccessiva quantità di denaro a costo quasi nullo circolante nel mercato finanziario a causa proprio delle politiche di allentamento quantitativo delle Banche centrali: le grandi istituzioni finanziarie ottengono credito, mandano in effetti leva i loro bilanci e si assicurano un vantaggio da questo delta, ovvero la differenza tra costi di finanziamento drammaticamente bassi e rendimenti obbligazionari sovrani, quasi senza voler contemplare i rischi insiti in questa operazione. Di fatto, con un trade a 30 punti base, il Bund tedesco è, nella logica del mercato futures, niente più che una opzione call sulla distruzione totale del concetto di “ricerca di massa del rendimento” che le istituzioni finanziarie hanno posto in essere negli ultimi anni.
Qual è il rischio al ribasso di questo trade, il rendimento del Bund scenderà ancora e arriverà a 15 punti base? E cosa accadrà quando finirà il ciclo deflazionistico e si attiverà quello inflazionistico o, peggio, iperinflazionistico? Non esiste infatti possibilità alcuna che il Bund tedesco possa tradare a 30 punti base per i prossimi cinque anni, figuriamoci per i prossimi dieci e quando i rendimenti obbligazionari diventeranno così compressi da rappresentare a malapena i prezzi di un’opzione call “out of the money” ma senza essere prezzati per un’inversione che rappresenti almeno la media degli yield a 10 per i bond, questo metterà l’intero sistema finanziario a rischio sistemico su larga scala, un qualcosa a cui le varie Banche centrali sarebbe meglio che cominciassero già ora a pensare. Il problema non è infatti la crescita anemica o la deflazione in sé, ma la crescita di una bolla enorme sulla più grande asset class del mondo insieme al Treasury: e il Bund che trada a 30 punti base rappresenta il classico canarino nella miniera di carbone, un disastro che aspetta solo di accadere per qualsiasi investitore che stia operano a leva sul suo bilancio con questo investimento ridicolo. Ma non solo, è anche la cartina di tornasole di altro, ovvero che nonostante sia ancora sideralmente lontano dai 575 punti base toccati nel novembre 2011, il nostro spread e quello spagnolo verso l’obbligazione tedesca sono già tornati ai livelli pre-annuncio del Qe, ovvero potrebbero aver già “prezzato” il bazooka di Draghi e ora necessitano di nuove buone notizie per invertire al ribasso e seguire il trend del Bund.
Il quale, però, è un bene rifugio, non l’obbligazione sovrana di un Paese con la ratio debito/Pil al 135% o di una nazione che nel weekend ha visto la prova di forza di Podemos in piazza in vista delle elezioni politiche, avvenimento che ieri la Borsa di Madrid ha pagato con un calo pesante. Oggi siamo in area 130 punti base, se dovessimo sfondare per qualche ragione area 150 allora potrebbero essere noie serie. Inoltre, le aspettative inflazionistiche recentemente sono calate più velocemente dei rendimenti nominali, questo a dimostrare che in molti mercati i rendimenti reali stiano già salendo, come ci dimostra il primo grafico a fondo pagina. Certo, possono esserci ragioni tecniche dietro questo trend, ovvero l’abbandono da parte di investitori dei cosiddetti inflation-linkers come carry positivo al ribasso sulla curva, ma se invece le aspettative seguiranno il mercato, come accaduto spesso nella storia e come ci dimostrano il secondo grafico a fondo pagina, le Banche centrali potrebbero essere forzate a politiche di stimolo meramente per mantenere i livelli attuali, senza interessarsi ad aggiungerne altri.
Quando il 22 gennaio Mario Draghi annunciò il Qe, inoltre, 1,4 triliardi di debito europeo con scadenza superiore a un anno venivano già tradati con tassi negativi, un qualcosa di senza precedenti. Ma se ampliamo lo spettro al di là dell’eurozona, includendo il debito di altre nazioni come Giappone, Danimarca, Svezia , Svizzera e così vià, cosa accadrebbe? Quello che ci mostra l’ultimo grafico a fondo pagina, ovvero che a oggi 3,6 triliardi di debito governativo a livello globale sono tradati con rendimento negativo, una cifra che rappresenta il 16% del Global Government Bond Index di JP Morgan. In parole povere, quasi un quinto di tutto il debito governativo del mondo viene scambiato con rendimenti negativi, cioè gli investitori pagano i governi, utilizzando denaro di altra gente, per il privilegio di comprare le loro emissioni! Roba da Tso.
Attualmente ci sono tra 1,5 e 1,7 triliardi di dollari di bond dell’area euro con scadenza superiore a un anno che tradano con yield negativo, quasi tutti di Paesi core entro la maturity dei cinque anni, ma il totale sale a 1,8 triliardi di dollari unendo 16 miliardi di debito svedese, 60 miliardi di debito svizzero e 45 miliardi di debito danese, tutti con rendimento negativo già oggi (e la Danimarca, oltre ad aver alzato il tasso sui depositi, ha annunciato di aver cancellato tutte le aste di debito per il 2015, quindi zero emissioni e zero bond da acquistare). Sul finire della scorsa settimana, poi, quasi tutti i bond governativi giapponesi tradavano con rendimento positivo, ma solo sette giorni prima circa 1,8 triliardi di dollari di debito nipponico avevano yield negativo: ecco arrivati a quota 3,6 triliardi o il 16% del JPM Global Government Bond Index.
La questione che questo scenario porta con sé è la seguente: con il mondo intero che sembra destinato a uniformarsi a tassi negativi, con quasi tutti i debiti sovrani con rendimenti sotto zero grazie alla garanzie della Banche centrali rispetto alla monetizzazione a tutti i costi di quel debito, perché mai gli investitori dovrebbero mettere i loro soldi in securities con un carry negativo? Certo, chi pensa che la deflazione alla fine porterà i rendimenti reali in positivo potrebbe comprare, ma a lanciarsi nel trade potrebbe essere chi specula sull’apprezzamento monetario, ad esempio investitori che comprano bond svizzeri o danesi per speculare sul rialzo di franco e corona. Certo, anche le Banche centrali possono comprare con rendimento negativo, visto che nel caso della Bce il tasso sui depositi in negativo di 20 punti base trasforma gli acquisti di debito con yield sotto zero in una carry trade comunque positivo. Anche le banche commerciali comprano quel tipo di bond, essenzialmente per sfuggire proprio ai tassi negativi di depositi delle Banche centrali come la Bce, quella svizzera o danese.
Ci sono attualmente circa 220 miliardi di dollari di riserve soggette a tasso di interesse negativo e, visto il Qe in arrivo, questo numero potrebbe aumentare esponenzialmente. E la recente esperienza svizzera ci insegna che anche una piccola quantità di riserve soggette a tassi di interessi negativi può avere un grosso impatto sui rendimenti obbligazionari. Inoltre, le banche commerciali hanno ancora un gap molto grande tra depositi e prestiti, quindi devono investire una larga parte di eccesso in securities. Una grande porzione di questa liquidità è investita in bond governativi con scadenze tra i 2 e i 5 anni, visto che gli istituti di credito sono riluttanti a prendersi rischi di lunga durata, poiché questo aumenterebbe il mismatch tra asset e liabilities, stante la contabilizzazione a rischio zero per i bonds e data la regolamentazione della ratio di copertura di liquidità che obbliga le banche a comprare obbligazioni governative di alta qualità. Dunque, al netto dei meccanismo di mercato e della presenza di compratori anche in ambienti di rendimento così estremi, avete visto un singolo passaggio che comporti non dico l’aumento dell’inflazione ma un aiuto alla crescita e alla riattivazione del meccanismo di trasmissione del credito nella logica del Qe e in un mondo sempre più a tassi zero? Nessuna, nulla. Come nullo sarà il contributo della Bce.
E attenzione, perché la favola dell’America fuori dalla crisi sta perdendo credibilità giorno dopo giorno, indebolendo il quadro di previsione di chi vede gli Usa come possibile puntello su cui basare la spinta che arriverà dall’Eurotower: dopo aver aperto in positivo, infatti, ieri l’indice Dow Jones si è schiantato in un attimo di 122 punti non appena è stato pubblicato il dato sull’indice manifatturiero, sceso al 53.5 contro le attese di 54.5, il livello più basso dal gennaio 2014, con i nuovi ordinativi a picco e le spese per costruzioni in crescita solo dello 0,4% contro un atteso +0,7%. Detto fatto, i rendimenti dei Treasuries e del Bund sono tornati a scendere a picco, con il bond tedesco ancora in area 0,30% e anche il Treasury a 30 anni che – dopo aver conosciuto un balzo alla notizia che Apple aveva annunciato emissioni di debito su varie scadenza per 5 miliardi di dollari per continuare nei buy-back, attivando i rate-locks e quindi facendo salire lo spread – in pochi istanti è tornato sui minimi del ciclo.
E non solo l’America è tutt’altro che risanata, visto che l’indice cinese Shanghai Composite ieri ha conosciuto il peggiore calo a tre settimane, calando del 3,8% da inizio anno e il Baltic Dry Index ci dimostra in questo grafico che ci sono più pattini in mare a Rimini in questi giorni d’inverno che navi negli oceani a consegnare commodities industriali: una quota così bassa, 632, non veniva toccata dall’agosto 1986. Ergo, recessione globale alle porte. Ancora una volta e nonostante qualche triliardo di manovre di stimolo. Avanti keynesiani, la fine è vicina.