Dopo quattro sessioni al rialzo che hanno visto i prezzi del petrolio salire del 19%, ieri l’oro nero è tornato a essere argomento di preoccupazione. Non tanto per il calo in sé, di circa il 4% per il Brent e di oltre il 5% per Wti dopo gli aumenti rispettivamente del 6% e del 7% registrati martedì, ma perché il mercato vedeva in quei giorni di apprezzamenti consecutivi il raggiungimento del cosiddetto “bottom”, ovvero il punto di discesa massima dal quale poi si innesca la risalita. Non è stato così, il deludente dato di domanda dalla Cina unito alla notizia del taglio della capital expenditure (il capex rappresenta i fondi che un’impresa impiega per acquistare asset durevoli, ad esempio macchinari. Si tratta prevalentemente di investimenti in conto capitale che dovrebbero permettere all’azienda di espandere o migliorare la propria capacità produttiva) da parte di grandi gruppi energetici come Bp, Chevron e del gigante dell’offshore cinese Cnooc ha frenato il rally e rimesso in discussione le dinamiche della commodity più finanziarizzata al mondo, innescando nuovi timori per il fallout del prezzo su comparti sensibili dell’economia e della Borsa. 



Sempre ieri, un report dell’American Petroleum Insitute dimostrava come le riserve di Wti fossero salite di 6,3 milioni di barili la scorsa settimana, contro una previsione di 3,25 milioni, ponendo ulteriore pressione ribassista, tanto che per Morgan Stanley «i prezzi di lungo periodo stanno muovendosi verso un range che potrebbe permettere ai produttori di fare hedging, un qualcosa che eviterebbe un materiale rallentamento della produzione Usa». Inoltre, le dinamiche dei prezzi la scorsa settimana hanno portato alla chiusura di altri 61 giacimenti Usa, il massimo da 24 anni a questa parte come dimostrano dati di Baker Hughes. 



E a confermare che quanto visto finora potrebbe essere soltanto il frutto di un insieme di fattori, tra cui la speculazione come vedremo tra poco (solo in parte dovuta a squeeze di posizioni short chiude di corsa e a ogni costo perché colte impreparate dal rialzo), ci ha pensato l’esperto petrolifero Stephen Schrock, a detta del quale l’aumento di 10 dollari al barile registrato martedì «penso sia soltanto il classico rimbalzo del gatto morto, mi aspetto che scenda ancora di un altro livello attorno a quota 40 o più giù». A suo dire, un altro fattore che ha influito nel mini rally rialzista è stato lo sciopero dei lavoratori del comparto, capace di inviare un segnale di potenziale limitazione della produzione Usa ai mercati, ma il quadro resta bearish, visto che «una domanda pari a 1,6 milioni di barili al giorno di crude è semplicemente sparita dal mercato. Questo è il nocciolo della questione, non abbiamo abbastanza domanda e resterà così per almeno altri tre, quattro mesi, perché c’è troppa offerta. Dovremo andare sotto quota 40 dollari al barile prima di sfondare al rialzo i 60 dollari un’altra volta». 



C’è poi dell’altro, ovvero una vulgata che possiamo definire complottista, in base alla quale il crollo del prezzo del petrolio non sarebbe dovuto a dinamiche di mercato, ovvero sovra-produzione a fronte di domanda in calo, ma unicamente a una strategia saudita per fare in modo che Vladimir Putin abbandoni al suo destino Bashar al-Assad in Siria, un ricatto energetico per limitare all’Iran il computo degli alleati di Damasco, da sempre nemico giurato di Riyad. Stando a Mustafa Alani, analista del Gulf Research Center, molto vicino alla famiglia reale, «gli iraniani non stanno mostrando alcun tipo di flessibilità sull’argomento, quindi occorre usare le maniere forti con i nemici», mentre un funzionario dell’amministrazione Obama ha dichiarato al New York Times che «l’aiuto militare che la Russia offre alla Siria è molto differente da quello che Damasco ottiene dall’Iran, il suo altro grande fornitore. Ma se Mosca ritirasse il suo supporto, non penso che l’esercito siriano potrebbe ancora operare». Inoltre, un numero sempre crescente di Paesi arabi starebbe ponendo pressione su sauditi e russi affinché trovino una sorta di accordo che ponga fine ai massacri in Siria, ma stando a un diplomatico arabo citato dal Washington Post, «la decisione è interamente nelle mani di Putin». 

Insomma, il collasso del prezzo del petrolio cominciato lo scorso anno sarebbe interamente legato al problema siriano e quindi, cinicamente, per capire quando si arriverà davvero al “bottom” della caduta dei prezzi, bisognerà attendere il giorno in cui Putin deciderà di abbandonare la sua difesa a oltranza del regime di Assad, perdendo però così tutto il grado di leverage che attualmente ha sull’Europa. Insomma, sono i sauditi a decidere del prezzo del petrolio e sulla questione siriana paiono non intenzionati a sentirsi rispondere “no” da Mosca, questo anche al prezzo di distruggere l’intero comparto shale e l’industria energetica Usa come danno collaterale. 

Ora, questa versione è credibile, resta però il fatto che gli Usa non possono permettere un calo ulteriore del prezzo e una prosecuzione anche solo sul medio periodo di queste dinamiche e, quindi, potrebbero inviare un inequivocabile messaggio in tal senso a Riyad. Al netto della geofinanza, ci sono però anche altre variabili da tenere in conto, non ultima quella speculativa attraverso la manipolazione dei contratti futures. Guardate il primo grafico a fondo pagina, ci mostra una strana dinamica in base alla quale sempre a ridosso della chiusura del Nymex si registrano rialzi del prezzo, destinati poi a sparire una volta chiuso il New York Mercantile Exchange (Nymex appunto), il principale mercato mondiale per futures e options sui prodotti energetici, come petrolio e gas naturale, ma anche su metalli preziosi, come argento, oro, palladio e platino e su metalli industriali come alluminio e rame. E a operare sarebbero sempre gli stessi soggetti, un fondo di trading con base in Olanda che attraverso due bracci operativi denominati Defendant Optiver Holding e Optiver Holding Vof nel marzo del 2007 ha sviluppato uno schema per manipolare il prezzo dei contratti futures petroliferi. 

Optiver, avendo accumulato un grossa posizione netta di Tas (ovvero eseguire circa il 20-30% del trading sui futures di Optiver subito prima della chiusura, salvo poi liquidarli), tradava un significativo volume di futures nella direzione opposta, prima e durante la chiusura della contrattazione con lo scopo di influenzare impropriamente i prezzi dei contratti futures non solo sul crude ma anche sul combustibile per riscaldamento e sul New York Harbour Gasoline. Sembra un film, ma succede davvero e molto più spesso di quanto pensiate, ecco perché il petrolio di carta andrebbe regolamentato, mentre Obama ha pensato bene di tagliare i finanziamenti all’ente regolatore e di vigilanza del Nymex. 

Ora, guardate il secondo grafico, ci mostra grazie all’elaborazione di Bank of America come quello attuale sia l’Hamilton Oil Shock più grande della storia, addirittura maggiore del collasso Lehman. Questo approccio fu sviluppato da Jim Hamilton, da cui ha preso il nome e ci mostra le deviazioni più significative dal trend, utilizzando le differenze in una media di andamento di tre anni per definire gli shock petroliferi e la loro entità: quello attuale è il peggiore a livello di impatto negativo. E sono in tanti a cominciare a pagare prezzi altissimi a questa situazione, visto che a fronte della continua chiusura di giacimenti e siti produttivi – oltre il 20% nelle ultime nove settimane, il dato peggiore dal giugno 2010 e il secondo peggior calo sulle otto settimane da 22 anni -, il gigante Chevron ha deciso di tagliare il 23% della sua forza lavoro in Pennsylvania, a causa «dei livelli di attività molto più bassi di quanto atteso» e di terminare già ora il suo programma di buyback azionario per il 2015, dopo aver acquistato propri titoli per 5 miliardi di dollari nel 2014: a pagare, quindi, sono lavoratori ma anche azionisti. E questi sono solo i primi a subire perdite, il rischio è che il fallout diventi un bagno di sangue. 

La scorsa settimana, infatti, vi ho parlato dell’enorme sovravalutazione della Borsa Usa rispetto alle medie storiche, soprattutto per quanto riguarda la ratio tra prezzi dei titoli e utili e in particolar modo proprio per quanto riguarda il comparto dei titoli energetici. Vi ricorderete come vi abbia detto che la ratio è determinata dal cosiddetto “Forward price earning”, ovvero un rapporto il cui numeratore è dato dal prezzo di mercato ma il denominatore è la media delle aspettative degli analisti per quanto riguarda gli utili nei 12 mesi successivi. Bene, nonostante il crollo delle quotazioni delle società legate al settore energy, il calo degli utili e delle aspettative future sugli utili la scorsa settimana hanno mandato i multipli sulle montagne russe a una media di 22, esattamente a 22,4 da 16,6 di fine dicembre, rendendo il comparto energetico quello con la più alta ratio prezzo/utile di tutti i dieci comparti dell’indice S&P’s 500. 

 

 

Stando a questo quadro, ci sono due sviluppi possibili: o nei prossimi trimestri il rapporto P/E è destinato a salire anche con prezzi costanti o in calo dello S&P’s 500, a meno che non ci sia un nuovo crollo oppure un qualsiasi evento non previsto riporterà immediatamente il rapporto P/E alla realtà di mercato, cioè ai massimi storici e a una sovravalutazione senza precedenti della Borsa americana. In ogni caso, un azzardo non da poco visto che se qualche fatto inaspettato dovesse portare i livelli di rapporto P/E sopra quota 20, l’effetto psicologico sugli investitori sarebbe quello di guardare all’anno 2000 e all’esplosione della bolla dot.com, quando quella ratio era arrivata a 26. 

E attenzione, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, lunedì quel livello è stato raggiunto e se qualcosa non inverte il trend, che vede l’aumento mensile a quota 10x, entro fine febbraio saremo al livello più alto mai raggiunto! Indicativamente, il multiplo P/E medio di lungo termine per le aziende energetiche è solo è poco più di 13x, quindi significa che al momento il mercato ha già calcolato e, peggio, prezzato il fatto che il settore energetico può facilmente raddoppiare i suoi utili, basati sul “Forward price earning”, dagli attuali livelli di depressione. Ma com’è possibile? 

Ce lo spiega il secondo grafico, grazie al quale vediamo che dal picco del giugno 2014, le stime sul prezzo/utili del comparto sono calate del 50% a causa del crollo del 60% del prezzo del petrolio, mentre i prezzi dell’Energy Index sono calati solo del 25% dai massimi. Il che implica due cose: o gli utili del comparto energetico salgono del 70%, implicando un prezzo al barile risalito a quota 88 dollari, e allora quella valutazione sui multipli torna normale oppure il prezzo del settore energetico deve crollare dagli attuali 549 a 323, circa un tonfo di oltre il 40%. 

Il problema, infatti, è che mentre le equities stanno prezzando in un mercato insostenibile di P/E a quota 26x, un altro mercato – quello delle previsioni sui tassi di interesse – sta implicitamente parlando di ulteriore crollo del prezzo a 35 dollari: se infatti il dollaro continuerà a rafforzarsi e si arrivasse alla parità con l’euro, la previsione è di un crollo del prezzo del petrolio del 22%, un qualcosa che implica il greggio a 35,5 dollari al barile tra un anno a partire da oggi. Di conseguenza, non solo il multiplo P/E potrebbe salire a 30x e oltre, ma i prezzi del settore dovrebbero scendere del 50% dal livello attuale, un qualcosa di devastante per gli altri settori quotati sull’indice S&P’s 500 e per tutte le altre asset classes: un evento che potrebbe spingere la Fed non ad alzare i tassi ma a dar vita, in fretta e alla massima potenza, al Qe4 tanto agognato da Wall Street. 

E senza scomodare questi scenari estremi, ancorché non impossibili, ci sono investitori che già stanno patendo e non poco la situazione attuale, visto che hanno pompato 1,4 triliardi di dollari nell’industria di petrolio e gas negli ultimi cinque anni, periodo durante il quale il prezzo medio del barile era a 91 dollari, aiutando la produzione Usa a salire al massimo da oltre 30 anni. Ora che i prezzi sono in area 50 dollari e, pare, in trend ulteriormente ribassista, ogni euforia sarà temperata dalle perdite che cominciano a sostanziarsi per i fondi investimento, gli schemi pensionistici integrativi e i bilanci delle banche. Il mercato al ribasso ha fatto sparire qualcosa come 393 miliardi di dollari da giugno 2014, 353 miliardi dalle azioni delle 76 aziende presenti nell’indice Bloomberg Intelligence North America Exploration and Production e almeno 40 miliardi dai bond energetici ad alto rendimento emessi da molte compagnie estrattrici. 

Per Sean Wheeler, co-presidente della Latham&Watkins di Houston, «la sola cosa che la gente sta notando è che i prezzi di gas e benzina sono scesi, non hanno notato però che questa dinamica sta colpendo anche i loro portafogli d’investimento». Inoltre, il denaro confluito nel settore petrolio e gas da tutto il mondo negli ultimi cinque anni arrivava da differenti fonti, visto che l’industria del settore ha completato joint-ventures, investimenti e spin-off per 286 miliardi di dollari, ha racimolato 353 miliardi di dollari da collocamenti e vendita di titoli e ha preso in prestito denaro per 786 miliardi attraverso emissioni obbligazionarie e prestiti. Il crollo del prezzo ha colto di sorpresa sia creditori che investitori, visto che otto mesi fa la Energy XXI Limited, un’azienda produttrice di petrolio di Houston, ha venduto bonds per 650 milioni di dollari e la domanda fu così alta che si raddoppiò l’ammontare dell’offerta: bene, il debito di quell’impresa oggi è tradato a meno di 50 centesimi sul dollaro e il titolo azionario ha perso l’88%. 

 

 

Il tutto a fronte di un debito pari a 3,8 miliardi dollari, livello che ha portato la Energy XXI a fare compagnia a oltre 80 aziende del settore con bond precipitati a livelli “distressed”, ovvero con i rendimenti che viaggiano oltre il 10% sopra il debito del Tesoro, visto che gli investitori ormai scommettono che le obbligazioni non saranno ripagate. Insomma, la crisi del petrolio morde e morde parecchio gli Stati Uniti, al netto di una pubblicistica che vorrebbe soltanto Russia e Venezuela in ginocchio per il crollo dei prezzi e mette seriamente a rischio la stabilità – un ossimoro visto il soggetto di cui stiamo parlando – di Wall Street e delle sue valutazioni ormai mark-to-Lsd. 

Insomma, se la teoria saudita del complotto si rivelerà reale, Washington potrebbe presto dover inviare un segnale molto chiaro all’alleato di Riyad. Il quale, però, ieri ne ha spedito uno chiarissimo, rendendo noto attraverso Reuters di aver venduto la quasi totalità (il 5,6% per l’esattezza, al prezzo di 188 milioni di dollari) della propria quota azionaria nel gigante dell’informazione americano News Corporation, un investimento ritenuto strategico dalla Saudi Arabia’s Kingdon Holding – il fondo di investimento del Paese – visto che era detenuto fin dal 1997. Stando a quanto reso noto da Ryad attraverso un comunicato, nel quale non si offrono spiegazioni per la decisione, la vendita di titoli è stata «prevalentemente eseguita» nella prima metà del 2014 e conclusa alla fine dell’anno: ovvero, quando la tensione in Ucraina stava salendo e quando i prezzi del petrolio cominciavano davvero a crollare. 

Detto fatto, un’ora dopo la stessa Reuters batteva un’altra notizia, sempre concernente i rapporti Usa-Arabia Saudita e destinata a fare molto rumore. L’agenzia di stampa riportava infatti che Zacarias Moussaoui, un ex dirigente di Al Qeada detenuto a vita negli Usa per il suo ruolo nell’attacco dell’11 settembre 2001, in una dichiarazione scritta presentata alla Corte federale di Manhattan avrebbe reso noto che membri della famiglia reale saudita avrebbero supportato materialmente ed economicamente il gruppo fondato da Osama Bin-Laden. L’ex luogotenente del “re del terrore” avrebbe redatto di suo pugno, alla fine degli anni Novanta, una lista di donatori che includeva alcuni ufficiali e funzionari sauditi «estremamente famosi», tra cui il principe Turki al-Faisal Al Saud, ex capo dei servizi segreti del Paese: «Bin Laden voleva che tenessi un registro di chi ci donava denaro per sapere chi doveva essere ascoltato e chi contribuiva alla jihad», ha scritto Moussaoui. Immediatamente l’ambasciata saudita a Washington ha denunciato il tentativo dell’ex terrorista di «minare le relazioni tra Usa e Arabia Saudita», sottolineando come i lavori della Commissione governativa sull’attacco alle Torri gemelle non avessero trovato alcun riscontro di finanziamento ad Al-Qaeda da parte di Riyad e definendo Moussaoui «mentalmente incapace, come alcune prove avanzate dai suoi stessi avvocati dimostrano. Le sue parole non hanno credibilità». 

Strani timing, però, sull’asse Usa-Arabia ieri. Solo una coincidenza?