Il sistema bancario italiano – che si appresta ad ascoltare domani al Forex l’analisi aggiornata del Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco – ha resistito meglio degli altri, nell’immediato, all’impatto della crisi, grazie ad alcuni fattori che è bene ricordare: in primo luogo, grazie al modello di intermediazione adottato, prevalentemente orientato agli impieghi in prestiti anziché alla finanza (leggi investimenti in titoli strutturati molto redditizi che si sono rivelati essere anche molto “tossici”); in secondo luogo, grazie all’indebitamento molto contenuto del settore privato dell’economia, solo successivamente colpito dalla lunga recessione che ha caratterizzato il periodo; in terzo luogo, grazie a una normativa di vigilanza piuttosto stringente e a una sorveglianza altrettanto severa da parte della nostra banca centrale. 



Conseguenza principale di questa situazione è stata il mancato intervento dello Stato nella capitalizzazione delle banche, com’è invece puntualmente avvenuto in quasi tutti i paesi sviluppati al fine di evitare il fallimento delle banche in crisi. Tuttavia, il progressivo deterioramento dell’economia, che ha trascinato con sé il mancato rimborso dei prestiti, la crisi del debito sovrano che ha anche determinato il rischio di break-up dell’euro, l’inaridirsi delle fonti di provvista dei fondi sui mercati finanziari internazionali, soprattutto di quelli a medio termine, hanno inevitabilmente finito per riflettersi anche sui bilanci delle nostre banche.



Anche quei fattori che inizialmente hanno preservato il nostro sistema, dopo l’avvio dell’Unione bancaria europea (col Meccanismo unico di vigilanza) e dell’esame cui sono stati sottoposti tutti i sistemi nazionali (il cosiddetto Comprehensive assessment), hanno finito per ritorcersi contro la percezione della sua stabilità: si pensi alla sostanziale penalizzazione cui sono andate incontro le nostre banche, caratterizzate dal richiamato modello di intermediazione orientato ai prestiti, dovendo provvedere ad accantonamenti e rettifiche di valore dei crediti molto consistenti; si pensi ancora ai danni che ha determinato il mancato intervento nell’immediato dello Stato (con modalità non penalizzanti e in quantità adeguata) per la capitalizzazione delle banche risultate più deboli, sulla base, per vero, di ipotesi di stress a dir poco “disastrose”.



La politica monetaria della Banca centrale europea ha consentito di limitare i rischi insiti nel deterioramento sopra accennato: le operazioni triennali del 2011 (Long term refinancing operations-Ltro) hanno evitato i danni dell’inaridirsi delle fonti di provvista all’ingrosso dei fondi; nel 2012, l’annuncio delle Omt (operazioni definitive monetarie) ha in primo luogo fermato la speculazione che puntava sul fallimento dell’euro, ha interrotto il legame perverso “crisi del debito sovrano-crisi bancarie”, e ha ridotto il rendimento dei titoli di Stato, consentendo di ridurre parimenti il costo del credito per famiglie e imprese; l’introduzione delle Targeted long term refinancing operations (Tltro) ha consentito di indirizzare la maggiore liquidità verso i prestiti all’economia, anche con acquisti di Abs (titoli derivanti dalle cartolarizzazioni) e di Covered bonds (obbligazioni bancarie garantite); da ultimo, l’intervento recente del Quantitative easing (acquisto su larga scala di titoli di Stato), per quanto tardivo, contribuirà a scongiurare i rischi della deflazione e a sostenere la crescita del credito.

Nonostante questi interventi il nostro sistema bancario si trova oggi di fronte a una situazione piuttosto delicata, riassumibile nei punti che seguono:

Si deve fronteggiare una situazione reddituale piuttosto critica: il continuo accrescersi della rischiosità dei prestiti, testimoniata da una crescita del rapporto fra le sofferenze lorde e impieghi (che ha raggiunto quasi il 10% a fine 2014, pari ad oltre 180 miliardi di euro, contro un 3,6% di prima della crisi), comprime un risultato d’esercizio già di per sé compromesso dalla riduzione dello spread (divario fra il tasso medio sui prestiti e quello sulla raccolta: 212 punti base a fine 2014 contro i 329 di prima della crisi); 

Si deve fronteggiare una situazione sindacale altrettanto critica: la manovra della principale voce di costo, rappresentata appunto dal lavoro, incontra forti rigidità in presenza di una strenua difesa dei livelli occupazionali e del necessario tentativo di legare detti livelli al concetto della produttività, stante la difficoltà di accrescere i volumi dell’intermediazione;

Bisogna assicurarsi requisiti patrimoniali sempre più stringenti e commisurati all’effettiva rischiosità dell’attivo, se non si vuole incorrere nei rigori di una vigilanza che, diventata europea per le banche principali, tenderà inevitabilmente a estendersi a tutte le banche del Paese;

Bisogna assicurare il necessario flusso di credito all’economia e in particolare alle Piccole e medie imprese, troppo penalizzate dagli avvenimenti legati alla crisi finanziaria. Anche dalla verifica appena conclusa sullo stato di salute delle banche, è emerso molto chiaramente il legame che c’è fra economia reale (imprese e famiglie) e sistema bancario: non si può più procrastinare il sostegno della struttura portante del nostro sistema produttivo (le Pmi appunto) se si vuole perseguire il risanamento bancario: vale il vecchio principio “imprese sane=banche sane”. Al fine di ampliare l’offerta di credito a favore delle piccole e medie imprese, sarebbe anche utile riproporre il tema di una soluzione di sistema per le sofferenze bancarie (creazione di una bad bank o di un fondo dedicato ai non performing loans, su iniziativa dello Stato, chiaramente con modalità compatibili con il vincoli sul bilancio pubblico), strada già suggerita dalla nostra banca centrale e sulla quale sembra si stia orientando il Mef;

Si devono adeguare i sistemi informatici ai continui progressi tecnologici e conciliare le procedure con il contenimento dei costi operativi, presupposto indispensabile per raggiungere e mantenere livelli adeguati di efficienza;

Si devono infine perseguire livelli crescenti di professionalità con le competenze necessarie per fare fronte alle sempre più pressanti esigenze di misurazione e gestione dei rischi propri dell’attività bancaria e fra questi principalmente il rischio di credito; al contempo bisogna saper rispondere alle sempre più sofisticate esigenze provenienti dal mercato e dalle autorità di controllo, principalmente in termini di chiarezza e trasparenza delle operazioni. A proposito del rischio di credito, credo che sarebbe opportuno rivalutare il ruolo della cosiddetta soft information (conoscenza e rapporto diretti fra banca e impresa) rispetto a più o meno sofisticati modelli statistici, assieme alla capacità di valutare le situazioni prospettiche delle imprese in luogo di quelle rivolte al passato.

Com’è evidente si tratta di vere e proprie sfide cui devono rispondere sia le singole imprese bancarie, a partire dai principali gruppi creditizi, sia le autorità preposte al governo del sistema e fra queste, innanzitutto, la nostra banca centrale.

Per vincere queste sfide occorrono sia modelli di governance efficienti, sia la possibilità di attrarre capitali dall’estero e di realizzare facilmente, ove necessario, un riassetto del sistema, con operazioni di accorpamenti e razionalizzazioni tali da consentire il raggiungimento delle sinergie e delle economie di scala possibili: è in questa prospettiva che va correttamente inquadrato il provvedimento di trasformazione delle principali banche popolari ed è nella medesima prospettiva che andrebbero valutate le opportunità di superare le comprensibili resistenze delle banche coinvolte. 

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