Per un’autoriforma finanziaria che ha tardato troppo rispetto alle attese del governo – quella delle Popolari – ce n’è una sulla quale è il governo a essere in ritardo : quella predisposta da mesi dalle Fondazioni dell’Acri.
Era lo scorso 31 ottobre quando al tradizionale appuntamento della Giornata del Risparmio il ministro dell’Economia, Giancarlo Padoan, davanti ai vertici delle 88 Fondazioni italiani pose virtualmente un timbro sul percorso avviato dall’Acri due anni prima. «Uno strumento utile e innovativo — sottolineò il ministro — potrebbe prendere la forma di un atto negoziale tra amministrazione pubblica e fondazioni, che individui in un modo più specifico i criteri di comportamento che le fondazioni sono tenute a osservare». L’autoriforma — osservò Padoan, che esercita la vigilanza istituzionale sulle Fondazioni — avrebbe risposto del tutto ai desiderata del Tesoro se alla Carta delle Fondazioni si fossero aggiunti «elementi di chiarezza sulla concentrazione del patrimonio, l’indebitamento e l’uso dei derivati e la trasparenza».
Dopo la stretta di mano con Padoan, fu lo stesso presidente dell’Acri, Giuseppe Guzzetti, a precisare i termini di un’autoriforma pronta: obbligo di riduzione — in tempi ragionevoli e concordati — delle partecipazioni bancarie entro il 30% del patrimonio totale per quegli enti che ancora fossero al di sopra (tutte le maggiori non lo sono già più). Poi — come aveva già sottolineato il ministro — divieto stretto di investire in derivati ma soprattutto di indebitarsi per sottoscrivere aumenti di capitale: ciò per evitare «disastri come quelli avvenuti su Mps e Carige», aveva puntualizzato il presidente dell’Acri. Riguardo la governance, l’Acri aveva messo sul tavolo fin dal congresso del centenario di Palermo una Carta di principi utili a dare compimento sia alla riforma Ciampi-Pinza del 1998, sia alle sentenze della Corte costituzionale del 2003. I muri fra politica e organi di governo delle Fondazioni, in concreto, avrebbero dovuto consolidarsi, senza più porte girevoli e liberi movimenti fra enti e amministrazioni locali designanti.
Il dossier sollecitato da Padoan — presente il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco — è comunque approdato sui tavoli del Tesoro pochi giorni dopo la Giornata del Risparmio. Ma da lì non si è più mosso e l’unica risposta che le Fondazioni hanno finora ricevuto da Via XX settembre è una stangata fiscale non proprio “mini” inserita nella legge di stabilità: 140 milioni di maggior prelievo sotto forma di inasprimento della tassazione delle rendite finanziarie. Abbondantemente svoltate le scadenze politico-legislative di fine anno, l’«atto negoziale» preannunciato da Padoan sembra ora essere stato abbandonato in una terra di nessuno sulla quale si allunga l’ombra dell’ultimo blitz del governo sulle Popolari.
Il premier Matteo Renzi — draconiano e centralista nell’imporre per decreto una riforma alle grandi cooperative bancarie — tiene ora in serbo un blitz analogo sulle Fondazioni? Quel che è certo è che ha promosso alla presidenza dell’Inps Tito Boeri: economista bocconiano fra i più irriducibili nel teorizzare l’annientamento delle Fondazioni. A Milano gli addetti ai lavori rammentano ancora il duro faccia a faccia fra Boeri e Guzzetti, tre estati fa, nella singolare cornice di Mediobanca.
Era stato proprio l’ufficio studi londinese di Piazzetta Cuccia a rilanciare un vecchio cavallo di battaglia degli avversari delle Fondazioni (soprattutto nel loro ruolo di azioniste-chiave delle grandi banche): per gli enti sarebbe stato più opportuno dismettere tutte le quote bancarie (dai nuclei stabili Intesa Sanpaolo a UniCredit) e investire in BTp. Si trattava di una variante di un’idea sostenuta senza successo dal presidente di Mediobanca, Francesco Cingano, durante il grande risiko degli anni 90: il Tesoro avrebbe dovuto comprare le Casse di risparmio e le banche pubbliche dalle Fondazioni proprietarie, pagandole in BTp a lunga scadenza e riaggregando poi il sistema bancario secondo un “piano regolatore” (che negli auspici di Mediobanca avrebbe dovuto premiare Comit, Credit e Bancaroma, gli azionisti di Via Filodrammatici, ritenuti i “campioni nazionali”).
Oggi lo schema realizzativo potrebbe essere diverso nella forma tecnica, non nella finalità espropriativa: lo strumento potrebbe essere il “trust”, uno schermo fra Fondazioni e banche; o forse una holding pubblico-privato sulla falsariga della stessa Cassa Depositi e Prestiti o dei suoi fondi strategici. L’esito potenziale sarebbe quello cui Renzi sta ormai abituando gli ambienti economici: una forte retorica “riformista” apparentemente ispirata al liberismo di mercato; un sostanziale interventismo neo-statalista, come quello che avrebbe potuto prendere forma con un ingresso diretto della Cdp nell’Ilva. La stessa Cdp (partecipata al 18,6% da 66 Fondazioni) che ora potrebbe essere chiamata a garantire una “bad bank” che ripulirebbe alcune banche grandi e medie di troppi crediti in sofferenza accumulati.
La “politica creditizia” di Palazzo Chigi, in ogni caso, scalpita: la “bad bank” è la leva sostanziale con cui rottamare Popolari (lente nell’adeguarsi ai tempi); e la fretta nel manovrare la “nuova Cdp” nell’emergenza economica può essere un buon pretesto per mettere sotto pressione le Fondazioni. Le quali, tuttavia, è mesi che mettono sotto pressione il Tesoro sulla loro autoriforma. Il Tesoro, dal canto suo, nel 2015, potrebbe doversi inventare qualcosa sia per evitare manovre correttive, sia per apprestare qualche sortita taglia-debito. E in questo caso il Renzi-style sarebbe certamente lontano dal concepire quelle trattative — pazienti e neppure troppo lunghe — che una decina d’anni fa portarono il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, a trasformare la Cdp in una nuova banca di sviluppo: con un miliardo di investimento pronta cassa da parte delle Fondazioni.