«Euro debole e basso prezzo del petrolio traineranno le imprese che esportano, mentre per quelle che producono per il mercato italiano il 2015 continuerà a essere un anno di vacche magre». È l’analisi di Ugo Arrigo, professore di Finanza pubblica all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Le Previsioni d’Inverno della Commisssione Ue stimano che il Pil italiano crescerà dello 0,6% nel 2015 e dell’1,3% nel 2016, mentre la disoccupazione sarà pari al 12,8% quest’anno e al 12,6% l’anno prossimo. Il Centro Studi di Confindustria aveva invece previsto un +2,1% nel 2015 e un +2,5% nel 2016.



Chi ha ragione tra Confindustria e Commissione Ue?

Le previsioni della Commissione Ue sono molto più ragionevoli. Se guardiamo alla situazione economica complessiva, sono cambiate le variabili esogene. Il quadro esterno di riferimento che condiziona l’economia italiana è mutato per il variare di due fattori: il deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro e la caduta del prezzo del petrolio. Le condizioni esterne sono insomma le migliori possibili.



Chi ne trae vantaggio?

Tra i produttori i benefici vanno soprattutto al segmento esportatore, perché i suoi prezzi diventano più competitivi a livello mondiale. Per queste imprese è meno costoso utilizzare il petrolio per produrre e i loro prezzi sono più competitivi a livello mondiale per la svalutazione della moneta. Andrà quindi meglio quel pezzo di economia che già andava abbastanza bene. Chi esporta non ha mai potuto permettersi di perdere competitività, neanche negli anni più duri della crisi, perché ha dovuto sempre affrontare la concorrenza esterna. E quindi non ha potuto smettere di investire, perché ne valeva della sua capacità competitiva.



Che cosa si aspetta invece per le imprese italiane che producono per il mercato interno?

Sicuramente anche per loro c’è un vantaggio legato alla riduzione del prezzo del petrolio e al fatto che i prodotti esteri con la svalutazione diventano più costosi, con un beneficio per quelli del nostro Paese. Resta però il nodo di fondo, e cioè che gli italiani non consumano ma anzi risparmiano sempre di più. Il motivo è che temono spese impreviste nel futuro in quanto vivono sotto la spada di Damocle di una tassazione che finora è sempre stata crescente.

E quindi?

Se gli italiani ricominciassero a spendere, anche quel pezzo di economia che produce per il mercato interno avrebbe la possibilità di risvegliarsi. Ritengo però che l’euro debole e la riduzione del prezzo del petrolio non siano sufficienti per determinare conseguenze significative a questo livello. Mi aspetto quindi che gli effetti per quella porzione più consistente di economia italiana che produce prevalentemente per il mercato interno saranno comunque più limitati.

Insomma, avremo un mercato a due velocità?

Sì. Laddove la concorrenza era alta i vantaggi saranno maggiori, mentre nei settori strutturalmente meno esposti alla competizione gli effetti di euro e petrolio saranno via via meno rilevanti. Fino ad arrivare al settore pubblico, nel quale la concorrenza è pari a zero e dove quindi se non ci saranno interventi interni non cambierà nulla. La Pubblica amministrazione continuerà a produrre servizi a costi troppo alti e poco appetibili per i cittadini.

 

Che cosa si dovrebbe fare?

Occorre una vera riforma della Pubblica amministrazione, senza aspettarci dei benefici per degli effetti esogeni. E l’unica vera riforma che va attuata è quella di introdurre concorrenza dall’alto cambiando le regole di quei settori. Vanno messi in competizione tra loro i soggetti che erogano servizi quali scuola e sanità.

 

Le stime della Commissione Ue ignorano gli effetti del Quantitative easing. Per quale motivo?

Il Quantitative easing ha effetti nel tenere ferma la speculazione, nell’abbassare i tassi e nel domare gli spread. Il punto però è che puoi anche portare il cavallo all’abbeveratoio, ma non lo puoi obbligare a bere. Se c’è disponibilità di fondi per effettuare credito, non è detto che poi ci siano operatori che sottoscrivano credito per fare gli investimenti. Il Quantitative easing ha molti effetti benefici, ma non è detto che si traducano in effettivi stimoli all’economia reale.

 

Per quale motivo gli investimenti non ripartono?

Con tassi così bassi l’efficacia della politica monetaria è molto trascurabile e non è in grado di fare ripartire la domanda. Il Quantitative easing rende il credito accessibile, ma i finanziamenti vanno ad alimentare una domanda di investimenti, che sono una conseguenza dell’aspettativa che i consumi cresceranno. Le imprese decidono di investire se pensano che si debba aumentare la capacità produttiva perché nel prossimo futuro la domanda aumenterà. Questo cambiamento di aspettative non si è ancora registrato in modo sensibile.

 

(Pietro Vernizzi)