Una firma notarile, stringata e fredda, sulla riforma delle Popolari varata per decreto dal governo. Una moral suasion verso lo stesso esecutivo per la creazione di una bad bank che smaltisca le sofferenze. Una semi-assoluzione per il sistema bancario sul credit crunch. Si è mossa su più registri la metà bancaria dell’ intervento del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al convegno Assiom-Forex di Milano. Al varco più atteso — quello sul blitz che impone a 10 grandi Popolari di trasformarsi in Spa entro 18 mesi — il numero uno di Via Nazionale ha dato per scontata la riforma già oggetto di acceso confronto. Visco ha anzi sottolineato che il decreto ha risposto a indicazioni che venivano da tempo dalla stessa Banca d’Italia, dalla Ue e dal Fondo Monetario Internazionale. 



E’ rimasto quindi deluso chi si aspettava che il capo dell’authority indipendente nazionale all’interno dell’Unione bancaria si riservasse qualche spazio di mediazione o di articolazione operativa della svolta di politica creditizia impressa dal premier Matteo Renzi. Il governatore ha invece enumerato di nuovo — peraltro molto in breve — tutte le ragioni che — almeno sulla carta — renderebbero utile il radicale abbandono della governance cooperativa per le grandi Popolari: la riduzione dei rischi connessi “alla concentrazione di potere presso gruppi organizzati di soci minoritari” e gli “incentivi al controllo sull’operato degli amministratori”; e soprattutto l’aumento della “capacità di ricorso al mercato dei capitali”. 



La seconda sottolineatura è oggettiva: all’exit vera dalla grande crisi, le banche — tutte — inseguono un new normal fatto di “solidità patrimoniale” e di “capacità competitiva”. Il governatore, d’altronde, ha implicitamente dato per acquisito che solo la trasformazione in Spa sia una via unica e obbligata: la strada delle aggregazioni è stata ventilata solo in un paragrafo successivo, a proposito delle banche di credito cooperativo. Alle quali, sempre implicitamente, ha avvicinato — in una nuova categorizzazione di fatto — le Popolari “minori” in cui verrebbe salvaguardato lo “spirito cooperativo”, diversamente da quelle quotate in Borsa. 



Sul destino di quest’ultime –  e molti dei loro vertici erano ieri in prima fila nella plateax –  Visco è stato invece silenzioso: non ha minimamente affrontato il tema dei futuri assetti di controllo della “Popolari Spa”, in particolare sul rischio di scalate estere e di “bolle” speculative che già hanno preso a gonfiarsi sui titoli al listino. Il governatore pare traguardare sempre lo standard globalista della public company, che peraltro non ha dato affatto buona prova (anzi) nel settore finanziario: Lehman Borhers era una public company; Abn Amro e Royal Bank of Scotland erano public company; e anche Montepaschi era una banca “trasformata in Spa e quotata in Borsa”. 

Visco ha in mente un Banco Popolare simile a Intesa Sanpaolo o UniCredit? Però i due “campioni nazionali” contano su un presidio nazionale di Fondazioni. Ha in mente che Ubi si fonda con il Montepaschi, che Bpm incorpori Carige? Forse il Forex non era la sede opportuna per prefigurarlo. Però i governatori della Banca d’Italia pre-Unione bancaria tradizionalmente si consentivano di più: anche, per esempio, il nominare “Monte dei Paschi di Siena” e non solo di ricordare in termini generali l’esito dell’Asset Quality Review dello scorso ottobre. 

Un po’ meno “governativo” Visco è stato parlando delle “sofferenze tossiche” che zavorrano le banche italiane. la “bad bank” ha riconosciuto, sarebbe la via maestra: facendo pagare alle banche (cioè ai loro azionisti) un giusto prezzo che tuttavia dovrebbe scontare l’impatto della recessione (esterno, non attribuibile alla responsabilità dei banchieri). D’altra parte al “sostegno pubblico” (cioè alla Cassa depositi e prestiti) andrebbe riconosciuta un'”adeguata remunerazione”: e questo — oltre a scongiurare l’opposizione Ue sul piano degli aiuti di Stato — prefigura (implicitamente…) l’intervento di altri investitori di mercato. L’alternativa (ma forse il “piano A”) rimane un maxi-sgravio fiscale per l’abbattimento diretto delle perdite su crediti nei singoli bilanci bancari. Ma la palla — una volta ennesima — è in mano al governo-demiurgo. 

Unica lancia spezzata, con toni elegantemente “cerchiobottisti”, è quella sulla frontiera bollente del finanziamento all’impresa. “La dinamica dei prestiti alle imprese, seppure in miglioramento, resta ancora negativa, riflettendo soprattutto la debolezza della domanda, ma anche tensioni residue dal lato dell’offerta”. La “prudenza delle banche nella concessione del credito — secondo il governatore — risente principalmente dell’elevato rischio di insolvenza, a sua volta legato al protrarsi della sfavorevole fase ciclica”. Il credit crunch, dunque, c’è, ma non è (solo) colpa delle (“mie”) banche. 

Appuntamento al 31 maggio. Ma chissà cos’avrà combinato nel frattempo Super-Renzi in campo creditizio: sempre più interlocutore diretto in Italia (e non solo) di Super-Mario Draghi.