La Cina è in trappola e rischia di innescare definitivamente la nuova recessione globale che è già in fieri. Le autorità politiche ed economiche del Paese, infatti, stanno scoprendo – come già accaduto ai giapponesi e agli americani – che non possono far sgonfiare in maniera controllata e sicura l’enorme bolla del credito venutasi a creare nei trimestri scorsi. Un anno di contrazione monetaria da parte della Banca del popolo e un massiccio deleverage di 250 miliardi di dollari nel sistema bancario ombra hanno infatti spinto il Paese verso un crisi da deflazione per debito: mercoledì scorso, a sorpresa, la Banca centrale ha tagliato la ratio per i requisiti di riserva (RRR) – il principale strumento politico a sua disposizione – ma questo può poco quando in ambito industriale la deflazione ha già raggiunto il -3,3% e il settore manifatturiero ha visto in ultima lettura, quella di gennaio, il proprio dato attestarsi a quota 49,8, ovvero 0,2 sotto la quota 50 che divide crescita da contrazione. Inoltre, per Haibin Zhu di JP Morgan, il taglio di 50 punti base, dal 20% al 19,5%, inietterà nel mercato soltanto 100 miliardi di dollari, una goccia nel mare del debito, visto che il costo medio di finanziamento a un anno per le aziende cinesi è salito da 0% al 5% in termini reali negli ultimi tre anni, come diretta conseguenza del calo dell’inflazione: per Ubs, il costo del servizio del debito per queste aziende è raddoppiato, passando dal 7,5% al 15% del Pil.



D’altronde è chiaro che ci vorranno altri e più drastici tagli prima che la Cina riemerga dalla sua indigestione di credito allegro, qualcosa come 26 triliardi di dollari di boom a fronte di un debito salito dal 100% a ben oltre il 250% del Pil in soli otto anni. Per fare un paragone, la crescita del credito durante il ciclo economico che precedette la “Lost decade” giapponese fu “solo” del 50% del Pil. Certo, la Banca del popolo potrebbe tagliare ancora e ancora fino a zero, liberando 4 triliardi di riserve da iniettare nel sistema come ossigeno emergenziale, ma significherebbe aver giocato la propria ultima carta. La componente occupazionale nell’indice della manifattura, inoltre, si è contratta per il quindicesimo mese di fila e se anche il governo parla di disoccupazione al 4,1%, uno studio indipendente di Fmi e International Labour Federation alza quella percentuale già oggi al 6,3%, un livello già preoccupante per un sistema politico e sociale come quello cinese.



I prezzi delle case solo in dicembre sono scesi del 4,3% e uno studio condotto da Jun Nie e Guangye Cao per la Federal Reserve mostra come dal 1998 gli investimenti immobiliari in Cina siano saliti dal 4% al 15% del Pil, lo stesso livello della Spagna durante il picco della “burbuja” zapateriana, come ci dimostra il grafico a fondo pagina e la giacenza media di materiali in magazzino è salita a 18 mesi contro i 5,8 degli Usa. E il crollo del mercato immobiliare si sta tramutando in uno squeeze fiscale visto che le vendite di terreni coprono il 25% degli introiti dei governi locali del Paese: per Zhiwei Zhang di Deutsche Bank, le entrate fiscali legate ai terreni sono calate del 21% nel quarto trimestre del 2014 e questo rappresenta forse il rischio più grande per un Paese la cui economia è già in rallentamento.



Il Fmi stima che il deficit fiscale della Cina sia vicino al 10% del Pil, una volta tolte dal conteggio le vendite di terreni e incluse tutte le spese, molto più alto di quanto normalmente si pensasse: insomma, i prodromi di un severo credit crunch ci sono tutti. E nonostante 14 province cinesi stiano preparando un blitz infrastrutturale da 2,4 triliardi di dollari per combattere la spirale recessiva, resta da capire quanto di quel denaro sia “nuovo”. La Cina, d’altronde, non è sola a dover affrontare il dilemma di come fronteggiare la deflazione e la sempre più feroce guerra monetaria in atto per cercare di contrastarla, visto che a livello globale sono ben 15 le Banche centrali che stanno operando politiche di allentamento solo dall’inizio di quest’anno.

La Danimarca l’altro giorno ha abbassato il tasso dei depositi per la quarta volta in due settimane, essendo di fatto al centro di un attacco speculativo da parte di chi scommette che sarà costretta a seguire l’esempio svizzero e rompere il peg con l’euro in vista del Qe della Bce. L’Asia, poi, è un vero e proprio laboratorio al riguardo, con lo yen giapponese già svalutato del 50% contro lo yuan cinese da quando il governo ha dato vita all’Abenomics, ma se prima gli esportatori nipponici hanno goduto i benefici della svalutazione per aumentare i margini, ora stanno tagliando i prezzi per guadagnarsi quote di export e di fatto esportando deflazione. Formalmente lo yuan è legato a un peg con il dollaro, sempre più forte, tanto da aver portato il tasso di cambio bilanciato al commercio a salire del 10% da luglio 2014, un qualcosa che sta erodendo i già minimi margini di profitto con cui operano le aziende cinesi e contraendo non poco le condizioni monetarie. Per David Woo di Bank of America, «Pechino sarà costretta a entrare essa stessa nella guerra valutaria globale per difendersi. Vediamo una netta svalutazione dello yuan come il maggiore tail-risk per l’economia globale».

Se infatti questo dovesse accadere, invierebbe un segnale deflazionistico devastante a livello mondiale, visto che la Cina lo scorso anno ha speso 5 triliardi di dollari in investimenti fissi, più di Europa e Usa insieme, aumentando la sua sovraccapacità in qualsiasi settore, dallo shipping alla produzione di acciaio, dalla chimica ai pannelli solari, a livelli inimmaginabili. Una svalutazione dello yuan scaricherebbe questa situazione su tutti e questo potrebbe capitare in un momento in cui l’Europa è già in deflazione del -0,6% e gli Usa stanno flirtando pericolosamente con il crollo dei prezzi, al netto dei trucchi contabili e delle diverse misurazione utilizzate. Un simile shock sarebbe molto difficile da contrastare, visto che i tassi di interesse sono già praticamente a zero quasi ovunque nel mondo sviluppato e si stanno raggiungendo livelli senza precedenti, con i bond sovrani a cinque anni che prezzo yields negativi già in sei nazioni europee.

E proprio ieri è uscito un altro dato che sembra aggravare non poco gli squilibri macro della Cina, visto che a gennaio le importazioni cinesi sono crollate del 19,9% anno su anno, contro le attese di un -3,2%, il peggior calo dopo il fallimento Lehman, mentre l’export è sceso del 3,3% annualizzato, contro le attese di un +5,9%, il peggior dato per gennaio dal 2009. Il problema è che, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, combinando questi dati la Cina si ritrova con un surplus commerciale di 60,03 miliardi di dollari, il più ampio di sempre. Uno sbilanciamento simile, cosa ci dice dello stato di salute dell’economia mondiale?

E a farci capire che la situazione è davvero seria ci ha pensato giovedì il capo dell’agenzia di rating cinese Dagong, Guan Jianzhong, guarda caso ripreso con grande enfasi dall’agenzia russa Itar-Tass. Ecco le sue parole: «Penso che dovremo affrontare una nuova crisi finanziaria mondiale nei prossimi anni, è difficile dare un termine temporale esatto, ma tutti i segnali sono presenti, come un crescente volume dei debiti e lo sviluppo non sostenibile di economie come gli Usa, l’Ue, la Cina e altre nazioni in via di sviluppo. La situazione, oggi, è però peggiore di quella del 2008. L’attuale crisi russa è dovuta alle sanzioni occidentali più che a fattori interni, mentre negli Usa e in Europa lo scopo del credito ha ecceduto il potenziale per la produzione di beni e ha creato una bolla. Questa crisi è stata trasmessa al mondo intero attraverso le politiche di Quantitative easing e l’uso della pressa valutaria. Ora tutte le nazioni devono pagare per questo. Usa, Ue e Giappone stanno facendo crescere i consumi attraverso la crescita del credito, il che pone un rischio».

Ora, io sono d’accordo con il signor Guan Jianzhong, visto che di queste cose vi parlo ormai da anni direi, però io posso permettermelo, perché non sono presidente di un’agenzia di rating di fatto controllata da uno Stato che, come ci mostra il secondo grafico a fondo pagina, proprio a causa del boom del settore immobiliare e del sistema bancario ombra ha visto il suo debito quadruplicato dal 2007 a oggi, passando dai 7 triliardi di otto anni fa ai 28 triliardi di metà del 2014!

 

 

L’ultimo report di McKinsey, pubblicato giovedì scorso, è infatti impietoso e ci dice che la ratio debito/Pil cinese ora è al 282%, oltre a sottolineare tre criticità: primo, metà del prestiti in Cina solo legati direttamente o indirettamente, proprio al mercato immobiliare in ebollizione. Secondo, nonostante la regolamentazione più draconiana, metà dei nuovi prestiti sono generati ancora dal sistema bancario ombra e, terzo, il debito di molti governi locali è già oggi a livelli non più sostenibili. Detto questo, lo studio di McKinsey dà ragione al signor Guan Jianzhong su un concetto fondamentale: vi ricordate il 2007? Bene, non solo da allora nulla è cambiato ma, anzi, oggi la situazione mondiale è in condizioni nettamente peggiori a causa del continuo indebitamento nelle maggiori economie del pianeta e dell’espansione della bolla del credito, alla faccia della favoletta del deleverage.

Tre i rischi: l’aumento del debito governativo, il quale in alcune nazioni ha raggiunto livelli così alti da necessitare nuovi strumenti per ridurlo; la già citata quadruplicazione del debito cinese; il continuo aumento dell’indebitamento dei cittadini, ovvero la crescita del debito privato che va a combinarsi con quello pubblico in un mix potenzialmente letale. Dal 2008 a oggi, il livello di indebitamento di governi, aziende, cittadini e istituzioni finanziarie in 47 Paesi è cresciuto di 57 triliardi di dollari a quota 199 triliardi di dollari, una crescita pari al 17% del Pil. Ora guardate il primo grafico a fondo pagina: dal 2007 il debito governativo è cresciuto di altri 25 triliardi di dollari e pare destinato a continuare a crescere in molte nazioni, dati gli attuali fondamentali economici. Parte di questo debito, dovuto anche all’incoraggiamento delle leadership mondiali per il finanziamento di programmi di salvataggio e di stimolo, deriva direttamente dalla crisi, mentre altro debito è la naturale conseguenza della recessione e della debole ripresa. Per sei delle nazioni più indebitate, dar vita una processo serio di deleverage richiederebbe senza dubbio un enorme aumento della crescita del Pil reale o profondi aggiustamenti fiscali, mentre McKinsey propone un approccio basato su nuovi strumenti, ovvero maggiori e più ampie vendite di assets, tasse patrimoniali una tantum e programmi di ristrutturazione del debito più efficienti. Segnatevi queste cose, perché è quanto probabilmente ci verrà chiesto dall’Europa entro l’autunno.

Il secondo grafico ci mostra come i cittadini abbiano dato vita a forme di riduzione del proprio indebitamento solo nelle nazioni “core” della crisi finanziaria, ovvero Irlanda, Spagna, Regno Unito e Usa, mentre in molte altre, la ratio debito/reddito è continuata a salire. In alcuni casi come l’Australia, il Canada, la Danimarca, la Svezia, l’Olanda, la Malesia, la Corea del Sud e la Tailandia si è addirittura superato il livello di picco pre-crisi del 2008, una situazione che potrebbe portare a crisi sul debito legate al settore immobiliare.

 Al fine di evitare questo e gestire in maniera più sicura gli alti livelli di indebitamento privato, McKinsey propone contratti di mutuo più flessibili, regole più chiare sulla cosiddetta “bancarotta personale”, un irrigidimento degli standard di prestito e regole microprudenziali. Insomma, la crisi e la recessione che dovevano portare le economie mondiali su traiettorie più sostenibili non ci hanno insegnato invece proprio nulla, anzi hanno acuito i brutti vizi che furono alla base di quella catastrofe su scala globale. Per McKinsey, inoltre, ci sono poche ragioni per cui pensare che la traiettoria della crescita del leverage possa cambiare in tempi brevi, ma, siccome occorre dare risposta alle sfide che questa situazione ci pone, «le economie che avranno bisogno di ulteriori, ampi ammontare di debito per crescere, al netto di un leverage molto raro e sempre più difficoltoso, dovranno imparare a convivere in maniera più sicura con il loro debito alto. Serviranno nuovi approcci per gestirlo e monitorarlo, al fine di ridurre i rischi di crisi e risolvere in maniera efficiente i default nel settore privato. I governi avranno bisogno di considerare più approcci e nuove strade per ridurre il debito pubblico e potrebbe essere giunta l’ora di rivalutare quando gli incentivi nel sistema fiscale incoraggino l’ammassarsi dell’indebitamento».

 

 

Attenzione a guardare troppo la pagliuzza greca, perché è la trave cinese che potrebbe innescare la nuova, grande recessione globale. Anche perché Pechino – come numeri e dinamiche – è Atene all’ennesima potenza: magari supererà ancora una volta il ciclo del “boom&bust” studiato dalla Scuola economica austriaca, ma a quale prezzo per l’economia globale, soprattutto di un’Europa già in deflazione conclamata?

 

P.S.: E, tanto per tenervi informati, venerdì, come si vede nel grafico, il Baltic Dry Index è sceso ancora – un calo che ha interessato gli ultimi 46 giorni su 50, di cui dodici di fila – a quota 559, solo a 5 punti dal minimo storico toccato il 31 luglio del 1986. Facilmente, oggi, quel record negativo e molto preoccupante per l’economia mondiale e il suo stato di salute verrà battuto. Cosa ci dice questo? Due cose. Primo, ci sono più canoe che viaggiano lungo i Navigli o all’Idroscalo che navi sulle rotte del Pacifico per consegnare commodities industriali – petrolio escluso – e secondo, il mondo è già di fatto in una nuova fase di recessione. Alla faccia dell’ottimismo di facciata e con la prospettiva di una guerra in piena regola tra Russia e Ucraina, certamente un avvenimento che non farà del bene alla crescita globale.

A proposito, una curiosità: ma la Mogherini ha fatto la foto a Putin, Merkel e Hollande o non era proprio presente all’incontro dello scorso fine settimana per cercare di scongiurare un’escalation militare? No, perché stando a Matteo Renzi la sua nomina a Mrs. Pesc, capo della politica estera europea, era strategica per l’Italia. Tanto strategica che Putin e Poroshenko hanno parlato con chi davvero conta in Europa e la signora Mogherini non era tra i presenti.