Le tasse “dovute” da Google per finanziare la ristrutturazione dell’editoria d’informazione italiana “in crisi drammatica”. Lo ha prospettato – senza troppe perifrasi – Raffaele Lorusso, nuovo segretario generale della Fnsi (il sindacato dei giornalisti italiani) in un’intervista-appello rilasciata al Corriere della Sera. Nei prossimi giorni, conferma Lorusso, è attesa una convocazione a Palazzo Chigi: Fnsi e Fieg (la federazione degli editori italiani di giornali) si augurano che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Luca Lotti, apra senza indugio un tavolo multilaterale (allargato anche a poligrafici e distributori) per una “soluzione radicale” alle gravi difficoltà della stampa quotidiana. E la “soluzione radicale”, secondo il leader del sindacato unico dei giornalisti, è sotto gli occhi di tutti: il dirottamento ad “aiuto straordinario all’editoria” della tassazione “equa” dei ricavi pubblicitari che Google realizza in Italia (si stima 1,2 miliardi di euro).



La premessa del ragionamento è che la crisi non tocchi singole aziende editoriali private (che in questi giorni stanno inanellando bilanci 2014 pressoché tutti in rosso ennesimo) o categorie professionali circoscritte, ma “l’informazione, bene primario della democrazia; l’informazione seria e autorevole, non la massa informe e spesso bugiarda che dilaga incontrollata nella Rete”. Il ragionamento conseguente è che “il lavoro quotidiano svolto dai giornalisti per un imprenditore-editore che investe perché si aspetta un profitto, viene quotidianamente saccheggiato e le regole del mercato non c’entrano”.



La falsa equazione proposta è dunque questa: Google (e/o altri giga-motori di ricerca) prendono quotidianamente contenuti dai produttori di informazione (fra cui quelli italiani) e incassano ricavi pubblicitari su contatti ottenuti “fraudolentemente”. In una situazione di emergenza per l’intera industria nazionale dell’informazione, scondo questi signori, sarebbe quindi compito dello Stato raddrizzare questa presunta anomalia per via fiscale. Il prelievo tributario che anche l’Italia sta tentando di ottenere per via transattiva da Google (rumors di stampa lo indicano in circa 300 milioni) sarebbe di fatto il recupero del “plusvalore” sottratto, a loro avviso, da Google a un insieme identificato di “content provider”. Secondo questo teorema non sarebbe quindi ingiustificato indirizzare tali risorse a una specifica crisi di settore.



Non sorprende che la zelante organizzazione sindacale che rappresenta la larga maggioranza dei giornalisti italiani si muova con passi rapidi e in parte “non convenzionali” per difendere occupazione e redditi dei propri iscritti. Però proprio l’onesta professionalità giornalistica imporrebbe una riflessione. L'”equazione Fnsi” sottende – anzi  afferma – che la crisi dell’editoria italiana è essenzialmente legata a una posizione dominante concessa negli ultimi anni a Google & C. Ma giornalisti, editori e governanti italiani sanno per primi che le cose non stanno così: che il cambiamento accelerato (non solo tecnologico) dell’industria editoriale è soltanto una delle concause della crisi dei media italiani. 

Le altre (forse più pesanti) sono una recessione di lungo periodo e l’obsolescenza dei modelli d’impresa dell’editoria italiana (dimensione, compagine azionaria, management e organizzazione, costo del lavoro professionale, eccetera). Se i ricavi pubblicitari si sono drammaticamente ridimensionati la colpa non è di Google, ma della recessione italiana/europea e/o del fatto che mercati emergenti/emersi sono divenuti prioritari perfino per gli inserzionisti del Made in Italy. E se i ricavi editoriali non coprono più il costo del lavoro giornalistico è perché il “low cost” preme inesorabilmente anche sull’editoria “di qualità” e gli editori italiani non riescono più a offrire a costi accettabili prodotti giornalistici “che non si può far a meno di acquistare”. In ultima e più cruda analisi, i giornalisti italiani e i loro standard retributivi “corporativi” assomigliano sempre di più al mondo proverbiale dei “minatori scozzesi” spazzati via da Margaret Tatcher ormai quasi quarant’anni fa.

C’e dell’altro ancora: se Google & C. – giusto o sbagliato – hanno conquistato una posizione dominante nel mercato è stato (anche) in virtù di un modello d’impresa e di mercato che (tutti) i grandi giornali italiani hanno additato quotidianamente come un’eccellenza da imitare. Forse non a torto: come Grande Fratello emergente della raccolta pubblicitaria sulla Rete, Google è però sostanzialmente meritocratica, secondo il verbo dei più autorevoli columnist liberisti. Lo provano decine, centinaia, migliaia di “youtuber”: giovani e meno giovani che s’inventano sceneggiatori-registi-produttori-interpreti di video. Se il prodotto della loro iniziativa (della loro creatività e professionalità) è premiato dalla Rete con diversi livelli di contatto, Google premia loro per cassa e a pronti: esattamente come premia un grande giornale tradizionale o un piccolo giornale innovativo se soddisfano il loro utente.

Se Google è semplicemente un’agenzia di raccolta pubblicitaria più efficiente ed efficace delle agenzie che finora hanno raccolto la pubblicità per i media tradizionali italiani, è un falso problema: a meno che non venga giudicato tale dall’authority Ue per la concorrenza. Ma non ci risulta sia così. E se – come nei fatti già avviene – Google corrisponde ai media tradizionali italiani un fatturato pubblicitario allineato con i nuovi standard del mercato globale ma non più compatibili con i vecchi budget di spesa, il problema è e resta degli editori italiani. E dei giornalisti loro dipendenti.