Ubi “comandata” a rimettere in rotta Mps. Asse Bpm-Bper per poi agganciare Carige. Un maxi-raggruppamento del Nord-Est (Banco Popolare, Vicenza e Veneto Banca). Sondrio e Valtellinese sotto costante pressione della Vigilanza per una concentrazione locale (c’è il precedente di Veneta e Antoniana a Padova negli anni ’90). L’Etruria già “in custodia commissariale” per essere riassegnata, prevedibilmente in eutanasia. Sembra disegnato – almeno presso i bookmakers di Piazza Affari – lo scenario di riassetto del grande credito popolare nazionale spazzato dall’uragano del decreto Renzi, che ieri è stato approvato dalla Camera: sicuramente senza quell’ostruzionismo al calor bianco che la prima reazione dell’AssoPopolari aveva ventilato (al netto di qualche residua minaccia di ricorso alla Corte Costituzionale), né le cronache hanno registrato un compromesso “fra pari” come quello incamerato ieri dalle Fondazioni dell’Acri (e come quello per cui ancora si batte il Credito cooperativo).



A proposito di Fondazioni, forse la novità più rilevante sul fronte delle stesse popolari è giunto nelle ultime ore proprio dall'”atto negoziale” siglato fra Giuseppe Guzzetti e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan: un’autoriforma che lascia intatta la fisionomia e l’autonomia degli enti, pur fissando standard più stretti sul fronte della governance e della gestione del patrimonio. Sotto quest’ultime voci, alcune Fondazioni – come ad esempio la Compagnia San Paolo e la CariVerona – dovranno limare le loro partecipazioni nelle loro “banche conferitarie” (rispettivamente Intesa Sanpaolo e UniCredit). 



In attesa tuttavia di possibili dettagli ulteriori, la prescrizione sembra a prima vista abbastanza flessibile: entro un terzo del totale attivo di una singola Fondazione dovrà rientrare l’impiego “su un singolo soggetto”. Sempre sulla carta non sembra quindi vietato che una Fondazione possa eventualmente reinvestire in un’altra banca i mezzi disinvestiti dalla “conferitaria” (cioè dalla banca “storica” o comunque “principale”). Oppure che una Fondazione possa uscire completamente dalla banca “storica” e investire in misura consistente (fino a un terzo del proprio patrimonio) in un altro gruppo bancario. 



A titolo di esempio, la Fondazione CariVerona ha già rilevato una piccola quota (0,5%) nel Banco Popolare, candidato appunto a essere baricentro di una o più aggregazioni. Ma non è una situazione unica: la Fondazione CariAlessandria è stata azionista della Milano, la CariCuneo lo è tuttora di Ubi. 

Non sorprenderebbe affatto, in ogni caso, che le autorità creditizie ignorassero – in questa fase – il “mantra” degli irriducibili anti-Fondazioni, che fin dai primordi chiedono l’uscita veloce e completa degli enti dagli azionariati del sistema bancario. Quanto meno nel periodo di transizione fissato dall”Investment compact” (24 mesi) non si potrà andare troppo per il sottile nel garantire il controllo stabile delle nuove Popolari Spa – prima o dopo le fusioni: neppure il premier Renzi potrebbe consentirsi scalate ostili dall’estero con il contorno di nuove manovre speculative in Borsa (il finanziere renziano Davide Serra è stato interrogato giusto ieri in Consob dopo i fuochi d’artificio attorno al decreto-blitz di gennaio).

Altro discorso merita, ovviamente, il possibile intervento su Popolari da ristrutturare e ricapitalizzare da parte dei tre gruppi a controllo estero operanti in Italia: Deutsche Bank Spa, Cariparma Credit Agricole e Bnp-Bnl. Non si tratta di ipotesi teoriche, ma è ovviamente ancora presto per ragionarci sopra.

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