L’ultimo tassello è l’accordo tra Pier Carlo Padoan e Giuseppe Guzzetti sulle Fondazioni di origine bancaria, proprio mentre la Camera approva la riforma delle banche popolari. Ma nel risiko renziano c’è anche altro: la conversione in azioni dei Monti bond che trasforma il Tesoro in socio del Monte dei Paschi di Siena, il progetto di una bad bank per ripulire il sistema creditizio, l’uso sempre più ampio della Cassa depositi e prestiti come una sorta di superbanca pubblica. Insomma, il governo ha messo l’acceleratore e sta intervenendo in modo massiccio sul sistema creditizio. Poche volte è successo tanto in così poco tempo. C’è una strategia? E quali sono gli obiettivi?



Il filo rosso è l’interventismo statale nell’economia. Sotto la spinta delle emergenze, come nel caso dell’Ilva o dello stesso Mps, ma non c’è dubbio che Renzi abbia fatto di necessità virtù. Lo ha detto in modo chiaro Andrea Guerra, l’ex top manager di Luxottica, diventato una sorta di plenipotenziario per il big business: “Pubblico e privato insieme”, ha spiegato a Giovanni Minoli su Radio24. Dunque, sta rinascendo l’ircocervo che era stato abbattuto negli anni ’90?



Nel caso delle popolari è il governo a guidare una trasformazione che ha anche un coté politico perché colpisce quel sistema di potere fortemente radicato soprattutto al nord-est, base di consenso per il centrodestra. La riforma avviene sotto la pressione della Banca d’Italia e della Bce, ed è diventata urgente dopo l’esito degli stress test e le ripetute dimostrazioni che la governance di queste banche del territorio è inadeguata. È dal 1998 che Mario Draghi persegue l’obiettivo di trasformare le popolari in società per azioni, ora dovrebbe essere contento. Quanto alla forma, il decreto, è farina del sacco di Renzi che non vuole ricadere nella palude. Il governo ha rifiutato la proposta di un’autoriforma proprio perché temeva che fosse un’altra perdita di tempo. Con le Fondazioni di origine bancaria, invece, Renzi ha usato un approccio più morbido. Due pesi e due misure? 



Ci sono differenze importanti, tuttavia non va sottovalutato che è stato imposto un controllo diretto del Tesoro, oltre a ripristinare il divieto di investire in banche in perdita, come era avvenuto in Carige e in Mps, e a ridimensionare le quote possedute negli istituti di credito. Insomma, anche qui si fa il volto dell’arme. Ciò avrà conseguenze sui pacchetti azionari delle più grandi banche come Unicredit e Intesa, sempre più trasformate in public company. 

Non è chiaro se Renzi ha un modello preciso in testa, ma volendo rintracciare un comune denominatore, si potrebbe dire che nelle banche come nelle grandi imprese c’è una chiara preferenza per l’azionariato diffuso, a fronte del quale il governo ripristina un suo potere di controllo se non proprio di veto. Finora Renzi si è mosso a zig zag, un colpo allo Stato e uno al mercato. Ma dalle dichiarazione dei suoi fidi, Guerra da una parte e Yoram Gutgeld dall’altra, sembra emergere la predilezione per una proprietà in mano a investitori istituzionali in gran parte stranieri (perché i soldi sono lì, come si dice), con il governo garante degli interessi nazionali nei settori strategici. Ciò emerge anche nella vicenda della banda larga e nel braccio di ferro con Telecom Italia alla ricerca di un nuovo, più stabile e solido assetto azionario. Quanto alla Rai, la scelta è chiara: il governo non solo comanda, ma dovrà persino amministrare. 

Per dirlo con una battuta, il paradigma renziano è McKinsey (da dove proviene Gutgeld) più il golden power. Uno schema che vorrebbe replicare anche nel caso della bad bank alla quale dovrebbero partecipare anche i privati. “Il mercato ha un ruolo importante”, ha detto il ministro Padoan, ma è evidente che il peso maggiore graverà sulla mano pubblica, coinvolgendo anche qui, con tutta probabilità, la onnipresente Cassa depositi e prestiti. Un puzzle difficile da comporre, tanto che la decisione slitta ancora.

Renzi non si fida dei potentati economici, tuttavia non ha al suo fianco soggetti in grado di sostituirli. Ha trovato il sostegno di Sergio Marchionne, però il capo della Fiat ormai sta fuori d’Italia. Lo ha apprezzato Giovanni Bazoli, ma prima aveva manifestato scetticismo, se non sospetto verso un politico che non fa parte del suo milieu. I grandi banchieri sono rimasti alla finestra. Grandi industriali che abbiano un peso politico non esistono più. Il capitalismo italiano si è desertificato e Renzi sta cercando di conficcare alcuni paletti nelle sabbie mobili del sistema, guardando molto all’estero, innanzitutto a Francoforte dove Draghi tira le fila.

È presto per dire che cosa accadrà, perché il capo del governo ha mostrato finora di essere un grande tattico, ma non un solido stratega ed è apparso più forte nella pars destruens che in quella construens. Del resto, ha avuto successo sventolando la rottamazione. Adesso che sta al governo, dovrà mostrare che cosa riesce a tirar fuori dai rottami.