A pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca, diceva Andreotti. Quelli della Cgil non lo pensano, lo scrivono: «All’ottavo anno della più grande crisi degli ultimi due secoli la domanda sorge spontanea: non si accorgono che i modelli econometrici utilizzati non funzionano? Oppure anche la “tecnica” di calcolo previsionale viene utilizzata per infondere fiducia negli attori economici e nei mercati a prescindere dalla creazione di nuova occupazione e nuovo reddito? Ancora una volta la metodologia viene piegata alla contingenza “politica”? Possibile che non si capisca che l’approccio monetarista e tutto dal lato dell’offerta – anche se con intento espansivo – non possa colmare i vuoti della domanda effettiva?».



Non paghi, ricostruiscono le stime previsionali della Banca d’Italia e delle principali istituzioni internazionali più prossime all’anno di previsione e, dunque, più utili per l’elaborazione dei Documenti di economia e finanza su cui vengono predisposte le manovre finanziarie di fine anno. Quelli del sindacato, poi, affondano il colpo evidenziando la clamorosa reiterazione degli errori di calcolo per 7 anni di seguito. Il gap previsionale, cioè lo scostamento cumulato tra le previsioni istituzionali e il dato effettivo, oscilla tra i 10,5 (dell’Ocse) e i 14,3 punti percentuali (del Governo italiano).



Si dirà: ma loro sono di parte nel riferire. Mica tanto se il Ministro Padoan confessa candidamente che “i modelli previsionali non funzionano più”. Già, se non lo sa lui che è stato pure all’Ocse dove sembra proprio che non ne azzecchino una. Previsioni? Pah. Manco a parlarne dice pure Marchionne, ad di Fca.

Affrontiamo l’arcano e vediamo di raccapezzarci qualcosa. Diamo un’occhiata a uno di quegli indicatori di fiducia, market sensitive, quelli che quando escono fanno tremare l’economia: la fiducia dei consumatori, quella condizione psico/economica che quando c’è fa il 60% del Pil. Quando sono in uscita i dati su questa fiducia tutti, ma proprio tutti, tendono le orecchie per poter scrutare se c’è la ripresa in atto.



Orbene, come si misura quella fiducia? Con la possibilità di soddisfare il bisogno con il potere d’acquisto a disposizione. Semplice, lineare, senza sbavature? Se, come ha mostrato il Centro studi di Confcommercio, il reddito disponibile delle famiglie italiane nel 2013 risultava lo stesso del 1990, la faccenda si complica. Eccome! Se, insomma, ho bisogni insoddisfatti e il portafoglio floscio, la vedo nera, mi deprimo: la mia fiducia va sotto zero. Se, invece a debito, negli anni passati ho acquistato oltre misura fino ad affrancarmi dal bisogno e oggi quello stesso portafoglio mi mette a dieta, manco il fitness, uso pure il fuori moda e magari vado a piedi o quasi, non sono affatto affranto, anzi conosco chi si inorgoglisce addirittura. Ho insomma margini di riserva per non essere depresso del tempo che mi aspetta: la mia fiducia tiene.

Orbene, vista questa mia discrezione a esser “doppio” vedranno chiaro gli agenti economici che stanno con me nel mercato. Le imprese vorranno mettere soldi per investire e produrre il nuovo? Le banche mi daranno credito e, ancor più, avranno indietro quello prestato? E i politici incontrandomi cambieranno strada o mi tenderanno la mano? Rischi a iosa per tutti insomma. Già, nessun sistema economico può permettersi una fiducia lasca. Sì, insomma, per limitare i danni tocca stabilizzare l’umore di quei consumatori.

Una strada v’è, occorre agire sul potere d’acquisto: se in grado di acquistare quanto viene prodotto potrà consentire a chi ha bisogno di avere ristoro; a chi manca del bisogno di intercettarne di nuovi, non è difficile, già li vedo.