“Ben 76 mila imprese hanno fatto richiesta di decontribuzione per assunzioni a tempo indeterminato, come previsto dalla Legge di stabilità”. È il dato riferito ai primi 20 giorni di febbraio, reso noto dal presidente Inps, Tito Boeri. Un segnale importante sull’efficacia del Jobs Act, tanto che il senatore del Pd, Francesco Scalia, ha subito esultato: “I numeri diffusi dall’Inps fanno piazza pulita delle polemiche, anche delle ultime ore. Il Jobs Act è uno strumento utile a contrastare la disoccupazione e a dare tutele a chi non le ha”. Ne abbiamo parlato con Leonardo Becchetti, professore di Economia Politica all’Università Tor Vergata di Roma.



Come legge il dato sulle 76mila imprese disposte a fare nuove assunzioni?

È cambiato lo scenario, ed è quindi difficile dire se questo dato dipenda dal Jobs Act o da fattori macroeconomici quali il tasso di cambio dell’euro, il Quantitative easing e il prezzo del petrolio. Sinceramente ritengo che abbia influito di più questo secondo ordine di elementi. La convinzione unanime dei commentatori è che ad avere modificato in modo sostanziale le aspettative degli imprenditori siano soprattutto i tre fattori macroeconomici che ho citato prima. Anche se gli effetti dei diversi elementi andrebbero misurati con serie storiche più attendibili. Sicuramente però questo è un buon segnale, ed è importante che ciò sia accaduto.



Di quali interventi c’è bisogno per mettere a frutto questa fase propizia all’occupazione?

Va sfruttato il fatto che si è ridotto moltissimo il costo del finanziamento del debito, cercando di concentrare il più possibile aste di titoli pubblici in questo periodo favorevole, come peraltro il Tesoro sta già facendo. Le risorse che si liberano in questo modo vanno utilizzate per ridurre le tasse sul lavoro e per spingere a livello europeo in favore di una politica di investimenti pubblici. Ho trovato particolarmente interessante l’idea lanciata la settimana scorsa da Varoufakis, che ha proposto un piano di investimenti pubblici europei finanziato da obbligazioni Bei, che potrebbero essere acquistate poi dalla Bce.



E per quanto riguarda l’Italia?

Per quanto riguarda l’Italia le due priorità sono la banda larga, che rappresenta l’Autostrada del Sole del Terzo Millennio, e la riduzione dei tempi della giustizia civile rispetto a cui siamo agli ultimi posti in Europa.

Il governo ha già ridotto l’Irap. Quali altre tasse sul lavoro vanno abolite?

Le risorse che abbiamo in più vanno usate per ridurre la pressione fiscale sulle imprese e sui cittadini. Da un lato, quindi, si possono ridurre le tasse sulle aziende. In alternativa si può scegliere di sostenere la domanda, estendendo il bonus da 80 euro nella direzione di un reddito minimo come negli altri Paesi europei e coniugandolo con un ammortizzatore universale che estenda la sua copertura anche ai lavoratori precari.

 

Come modulerebbe il reddito minimo?

Condivido la proposta avanzata dalle Acli, che hanno lanciato un “Reddito d’inclusione sociale”. I destinatari sarebbero tutte le famiglie che risiedono legalmente in Italia da almeno un anno e che vivono al di sotto delle soglie di povertà assoluta fissate dall’Istat. In base al costo della vita, l’entità di questo reddito minimo sarebbe pari a 807 euro al Nord, 786 euro al Centro e 593 euro al Sud. A regime questo intervento costerebbe 6 miliardi di euro.

 

Il reddito minimo andrebbe dato solo a chi perde il lavoro o anche a chi non lo sta cercando?

Il reddito minimo andrebbe assegnato anche a chi non sta cercando un lavoro. Mentre il sussidio va dato a chi ha perso un lavoro, e va quindi tolto se la persona non dimostra di stare cercando attivamente un lavoro. L’importante è che il sussidio sia un ammortizzatore universale, e non soltanto per gli ex lavoratori delle grandi imprese.

 

(Pietro Vernizzi)

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