Resta un rebus la Big Bad Bank, il progetto di grande discarica “di sistema” dei crediti difficili dalle banche italiane (184 miliardi le sole sofferenze in senso stretto). Il Sole 24 Ore segnalava ieri sforzi rinnovati – soprattutto da parte di Abi e Bankitalia – su vari fronti: primo fra tutti l’Unione europea che dovrebbe autorizzare un’eventuale garanzia statale alla struttura. Ma mentre lo stesso governo Renzi sembra incerto nell’utilizzare risorse pubbliche per consolidare il sistema bancario, da quest’ultimo continuano a giungere segnali di scarsa compattezza.



UniCredit e Intesa Sanpaolo, i due campioni nazionali, hanno da tempo raggiunto un accordo in joint venture con due investitori globali specializzati in crediti “distressed” (KKR e Alvarez & Marshall). Ma è significativo che – nelle ultime ore – anche una media Popolare come il Credito valtellinese abbia rotto gli indugi a favore di un’intesa singola con Yard Group, specialista in mutui immobiliari problematici: eppure le Popolari – a maggior ragione nel mezzo di una riforma “di comparto” sollecitata da Governo e Bankitalia – sembravano di per sé candidate a una bad bank di categoria.



Novità – non eclatanti, ma neppure marginali – possono essere invece in vista sul fronte “carsico” delle quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia. Un anno fa il tema è stato per l’ultima volta sotto i riflettori della grande cronaca in occasione della rivalutazione del capitale sociale dell’Istituto centrale da soli 156mila euro a oltre 7,5 miliardi: uno degli ultimi provvedimenti dell’esecutivo pilotato da Enrico Letta, molto criticato come “regalo alle banche”. Dato oggettivo è stato che è stato offerto un rafforzamento al patrimonio di vigilanza delle banche italiane – essenzialmente UniCredit e Intesa Sanpaolo che, assieme, detengono il 52% del capitale. Ciò è avvenuto in cambio del pagamento di un’imposta sostitutiva ridotta (20%) sul capital gain nominalmente registrato. Il provvedimento ha però portato altre modifiche importanti al dossier-proprietà Bankitalia, in lavorazione fin dalla “legge sul risparmio” del 2006. Le quote nel capitale di via Nazionale sono state infatti sterilizzate nel voto fino al massimo del 3%, ma sono state dichiarate nel contempo liberamente trasferibili.



La prospettiva apparente è stata quindi quella di riprendere in chiave di mercato alcuni degli spunti che avevano alimentato un dibattito rovente durante e dopo l’estate delle Opa, nel 2005. Allora le accuse al governatore Antonio Fazio di favorire la Popolare Italiana e la Bnl contro Abn Amro e Bnl furono sostenute anche richiamando il conflitto d’interesse potenziale nell’azionariato della Banca d’Italia, distribuito fra le banche italiane vigilate. L’esito fu la prescrizione delle legge 262 a modificare la situazione proprietaria entro il 2008: ma, una volta approdato Mario Draghi in via Nazionale e ritornato Romano Prodi a palazzo Chigi, l’indicazione non fu realizzata.

Se tuttavia Giulio Tremonti, da ministro dell’Economia, si era detto pronto a pubblicizzare la banca centrale, le Fondazioni bancarie erano state indicate come candidate naturali all’acquisto di partecipazioni che – come la Cassa depositi e prestiti – presentavano profili di tendenziale stabilità patrimoniale e di sostenibilità reddituale. Punti di vista più libero-mercatisti hanno tuttavia continuato a guardare alla possibile quotazione in Borsa della Banca d’Italia e all’intervento di investitori esteri.

Ragionamenti che evidentemente non sono stati accantonati del tutto se – come rilanciano fonti finanziarie in questo scorcio del 2015 – Tesoro e Bankitalia avrebbero individuato in una piattaforma di mercato il veicolo di mobilizzazione regolata delle quote Bankitalia: si tratterebbe di e-Mid, il mercato interbancario dei depositi. L’ipotesi sarebbe ancora molto preliminare: si vedrà se il 31 maggio Ignazio Visco ne farà o meno cenno all’assemblea annuale di via Nazionale.