Sono identificati come “kuklofori” (letteralmente portatori di cappuccio). Sono giovani (spesso di buona famiglia) anarchici che ogni qualvolta la tensione politica è alle stelle si mettono in azione, occupando edifici pubblici, bruciando macchine e spaccando vetrine. Hanno un’ideologia?  Sono “antisistema” con la paghetta di papà. In Grecia, purtroppo, ci hanno fatto l’abitudine. La polizia non riesce a bloccare in anticipo il loro vandalismo. Ma non solo: non si conta mai un arresto. E non si spiega la ragione per cui non sono mai stati infiltrati. 



Nell’arco di un mese hanno occupato la sede di Syriza, la Facoltà di Legge e, due giorni fa, hanno vandalizzato il quartiere di Exarchia, in cui si trova la sede del Politecnico  – edificio storico della lotta contro i colonnelli – bruciando macchine, filobus e cassonetti della spazzatura. Si potrebbe analizzare questa violenza come la conseguenza del disagio di migliaia di giovani senza lavoro (il 60% è disoccupato, il resto sottopagato), ma sarebbe un’analisi semplicistica. Simili episodi si erano verificati anche durante il molliccio governo di Kostas Karamanlis, quando ufficialmente  l’aumento annuo del Pil era del 4%, e quando l’attuale Presidente della Repubblica, Prokopis Pavlopoulos, allora ministro dell’Interno, fece assumere con un contratto a tempo indeterminato 800 mila impiegati nel settore statale e parastatale, e le banche distribuivano carte di credito senza alcuna garanzia.



Era il 2008 e in Grecia erano arrivate a circolare più carte di credito – in numeri assoluti – che in quasi tutti gli altri Paesi dell’Eurozona. Nel 2009, infatti, secondo i dati forniti dalla Bce le carte di credito circolanti in Grecia erano 6,145 milioni, mentre in Svezia ne circolavano 5,615 milioni, in Germania (Paese con una popolazione otto volte superiore) 3,556 milioni. Soltanto nel 2013 si è ritornati alle giuste proporzioni. Sempre secondo i dati della Banca centrale europea, alla fine del 2013 il numero delle carte di credito si è ridotto a 2,926 milioni. Dal momento che la Bce pubblica i risultati delle sue ricerche con circa un anno di ritardo, c’è da supporre che in questo momento in Grecia il numero delle carte di credito circolanti si sia ulteriormente ridotto, scendendo addirittura sotto i 2,5 milioni, tenendo conto che dall’inizio della recessione le carte di credito “si spengono” al ritmo di oltre 400-500mila all’anno.



Si tratta del numero più basso dall’anno 2000, quando ancora circolava la dracma. In parte la recessione si può anche attribuire alla scomparsa del “denaro di plastica”. Secondo i dati disponibili le transazioni mediante carta di credito sono calate di almeno 3,7 miliardi di euro all’anno rispetto al periodo precedente alla recessione. Sempre secondo la Bce, nel 2007 e nel 2008 le transazioni avevano sfiorato i 7,7 miliardi di euro all’anno per crollare agli odierni 4 miliardi di euro scarsi. Ma le perdite economiche risultano ancora più cospicue se si considera la differenziazione qualitativa nell’uso delle carte di credito. 

Infatti, se nel 2007 e nel 2008 la quasi totalità delle transazioni riguardava gli acquisti al dettaglio o il prelevamento in contanti, oggi le carte di credito servono soprattutto per il pagamento delle imposte. In altre parole, i consumatori sembrano essere passati da un eccesso all’altro. Mentre in passato non era infrequente il caso di clienti con due, tre o anche più carte di credito nel portafogli, oggi centinaia di migliaia di greci non ne posseggono neppure una, sia perché gli è stata ritirata dalla banca, sia perché il cliente stesso ha preferito disfarsene.

“La Grecia ha vissuto al di sopra delle sue possibilità economiche”, ha sferzato il ministro delle Finanze tedesco. Vero per la metà. Ma non sono stati proprio i tedeschi a mettere a disposizione delle banche elleniche miliardi di euro per strappare un tasso di interesse superiore sui bond ellenici?  E non sono state le banche elleniche a offrire crediti che oggi sono inesigibili (si pensa che siano il 40% del Pil)? E non sono forse state le banche tedesche (e francesi) a essere salvaguardate e salvate dal disastro nel corso del primo default?  Storia passata che ha lasciato sul terreno tre governi, un’intera classe politica (corrotta e inefficiente) e dato l’avvio per un nuovo paradigma politico  e sociale che, tuttavia, non riesce a imbastire un canovaccio di idee concrete, se non usando improbabili ricatti, ricette fantasiose e definizioni surreali (Varoufakis: l’accordo del 20 febbraio è frutto della “ambiguità creativa”).

Un mese dopo, la tensione Atene-Bruxelles-Berlino è al calor bianco. Ieri, in un lungo intervento in Parlamento, il primo ministro Tsipras ha ribadito le stesse linee politiche esposte in campagna elettorale: “Non faremo un passo indietro” e  ha lanciato accuse ai creditori e ai tecnocrati europei che continuano a non volere riconoscere il valore politico dell’accordo-ponte del 20 febbraio e il risultato delle elezioni. “Mi rivolgo ai vertici europei: è questa l’Europa che abbiamo sognato? È questa l’Europa che stiamo costruendo? Che tipo di Europa è questa e chi rappresenta? […] L’Europa non è di proprietà dei tecnocrati”, ha sottolineato Tsipras. “Oggi e domani in Parlamento si alza il muro della sovranità e della dignità”, ha aggiunto. 

Indubbiamente le sue dichiarazioni non erano concilianti, in vista dell’incontro di oggi a Bruxelles, anche perché sempre ieri è stato presentata la legge sulla lotta alla crisi umanitaria (elettricità gratuita e aiuti per le abitazioni per gli indigenti con un costo di 200 milioni di euro): la sua approvazione è una sfida ai creditori perché questa proposta di legge è stata respinta dai tecnocrati in quanto giudicata una azione “unilaterale”.

Da oggi a lunedì prossimo, quando Tsipras incontrerà Angela Merkel, si deciderà il futuro della Grecia. Quale?  Che cosa sceglierà Tsipras? La rottura imposta dalla ragione politica del “siamo stati eletti per mettere fine alla austerità e al Memorandum, non permettiamo ai tecnocrati europei di imporci le loro regole”, oppure il compromesso che rispetti le aspettative di una società obbligata a pesanti sacrifici in ragione di un futuro all’interno della moneta unica, e che ha votato Syriza quale unica opzione possibile? E qualora accettasse dei compromessi siamo certi che troverà una maggioranza parlamentare che gli garantisca la sopravvivenza? 

Il “syrizeo” deputato giacobino Costas Lapavitsas (e altri della sinistra-sinistra, una trentina) voterà leggi che non siano in perfetta sintonia con il programma elettorale di Syriza? Lui, economista, continua a sostenere una “uscita morbida dall’euro” e un ritorno alla dracma, magari con la prospettiva della tessera annonaria per benzina e generi di prima necessità. Comunque a fronte di questo ipotetico disastro sociale, Lapavitsas potrebbe sempre ritornare a Londra a insegnare Teoria economica e girare il mondo tenendo conferenze (ben remunerate) – magari in compagnia del collega-avversario Yanis Varoufakis – sulla crisi ellenica e sul disastro della moneta unica, come ha fatto l’ex primo ministro Jorgos Papandreou.

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