Et voilà, il mito della ripresa e dell’economia Usa in grande forma perde ancora di credibilità. Come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, nel quarto trimestre il prodotto interno lordo Usa è cresciuto del 2,18%, più delle previsioni del 2% ma meno rispetto alla prima stima del 2,64%, sintomo chiaro che l’economia americana ha rallentato il passo negli ultimi mesi del 2014 e quasi una manna per chi teme come la peste il possibile rialzo del tassi da parte della Fed a giugno. Insomma, dopo il dato record del terzo trimestre con il Pil a +5%, grazie sostanzialmente alla ricalendarizzazione delle spese legate al programma Obamacare e a un’enorme revisione dei dati relativi a consumi e risparmi degna di Fausto Tonna (come vi dimostrai già all’epoca), ora si torna a mettere in discussione quanto la Fed e la sua azione abbiano effettivamente fatto per l’economia reale Usa, a fronte dei rally senza fine dei mercati.
Sulla revisione al ribasso ha inciso un aumento inferiore alle stime delle scorte aziendali (da 113,1 miliardi a 88,4 miliardi di dollari), fattispecie che ha dato un contributo inferiore al Pil, passando dallo 0,82% previsto allo 0,12% reale: un qualcosa di assolutamente atteso, però, visto che l’aumento stimato delle scorte aziendali a +113,1 miliardi di dollari nel quarto trimestre rappresentava il secondo aumento mensile del XXI secolo, secondo solo al settembre 2010. Da quel momento in poi, saranno solo dati liquidatori del Pil.
A sostenere il Pil, poi, è stata la crescita rapida dei consumi (+4,2%, il passo più rapido dal quarto trimestre 2010 e poco inferiore al +4,3% della prima stima) e gli investimenti aziendali aumentati del 4,8% (meglio del +1,9% della prima stima). Peccato che ci sia un però: per quanto riguarda gli investimenti fissi, quel contributo al Pil già nel primo trimestre di quest’anno è destinato a sparire vista la riduzione del capex da parte delle aziende petrolifere colpite dalla crisi dei prezzi, mentre i consumi personali ci regalano ancora l’ennesima pantomima all’americana. In cosa avrebbero speso, infatti, gli statunitensi i soldi risparmiati grazie al “taglio fiscale” garantito dal crollo dei prezzi energetici? Stando alle stime, nel quarto trimestre i cittadini Usa avevano speso qualcosa come 20,4 miliardi di dollari in sanità, il livello più alto di contributo al Pil da parte della voce “consumi” da anni. E nonostante la prima revisione, ieri abbiamo scoperto che negli ultimi tre mesi del 2014 quel livello di spesa è cresciuto ancora, adesso a quota 21,4 miliardi di dollari, il 18% di tutte le spese per beni e servizi del quarto trimestre, come ci mostra il secondo grafico! Et voilà, le spese obbligatorie legate al programma Obamacare hanno fatto il miracolo ancora una volta, di fatto annullando l’effetto negativo delle deboli vendite al dettaglio di fine 2014 e inizio 2015. Ma si sa, il sottoscritto è un catastrofista che legge i dati aggregati del Pil come vuole lui, sempre in negativo.
Beh, se così fosse trovatemi qualcuno che invece riesce a leggere in qualche modo in positivo quest’altro dato, splendidamente spiegato dal terzo grafico: l’indice manifatturiero Chicago PMI a febbraio è letteralmente crollato a 45.9 contro le aspettative di 57.5, il peggior dato dal luglio 2009 e i peggior calo mese-su-mese dal crollo Lehman, mentre il dato dei nuovi ordinativi è sceso al livello minimo dal giugno 2009. E nonostante la vulgata ufficiale spieghi questo tonfo con le avverse condizioni meteo e alcune proteste sindacali nei porti del Paese, Jon Hatzius, capo economista di Goldman Sachs, a caldo ha voluto commentare solo in questo modo: «Questo dato è un buon argomento per la Fed per alzare i tassi almeno dopo settembre». Viva la sincerità.
E che dire del primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra come il “Consumer Comfort Index” di Bloomberg sia ai minimi da inizio anno e in calo al livello maggiore da maggio 2014: come mai, se il mercato azionario sfonda un record al giorno e i salari reali per ora lavorata sono saliti al massimo dal 2008 su base mensile? Ce lo spiega il secondo grafico, il quale ci mostra come in gennaio l’economia Usa sia tornata in deflazione per la prima volta dal crollo di Lehman Brothers a gennaio, postando un -0,1% nell’indice dei prezzi contro il +0,8% registrato a dicembre, un calo su base mensile dello 0,7% dovuto quasi interamente al crollo dei prezzi per l’energia. Il fatto è che, tolti gli anni della crisi finanziaria post-Lehman, è la prima volta dall’agosto del 1955 che gli Usa postano un dato di deflazione, proprio l’anno in cui Marty McFly in “Ritorno al futuro” faceva di tutto per non andare al ballo con sua madre.
Deflazione e rialzo dei tassi sono cose che vanno di pari passo? No, anzi, sono l’antitesi: quindi, avanti con altri rally azionari, sostenuti dalla certezza che i tassi non saliranno almeno fino al ritorno dalla vacanze estive negli Hamptons da parte di molti traders. E sapete perché ho legato questo dato all’aumento dell’1,2% dei salari su base oraria registrato in gennaio rispetto a dicembre? Proprio perché l’ultima volta che si conobbe una crescita simile fu nei mesi successivi al fallimento di Lehman Brothers, quando il vortice deflazionistico che venne a crearsi portò a un paradossale senso di benessere e alla predisposizione a spendere i salari aggiustati al tasso di inflazione.
Cosa mi attendo nei mesi a venire per il Pil Usa? A mio modo di vedere, dopo la revisione di venerdì del dato del quarto trimestre mi sento di confermare che il dato record del terzo trimestre sia stato il picco del ciclo e quindi mi aspetto una crescita su base trimestrale a zero nel terzo e quarto trimestre di quest’anno, per una seria di fattori: aumento dei tassi reali, mal-investment nel settore energetico e soprattutto il calo degli utili registrato negli Usa. Guardate il terzo grafico: ci mostra come il cambiamento a sei mesi nelle previsioni di utile per azione a dodici mesi sia coincidente con l’andamento del Pil Usa, quindi attendiamoci scostamenti al ribasso nell’ordine di quelli che vi ho previsto poco fa (a meno che non si scateni una guerra in grande stile, alla Siria o all’Isis poco cambia, nel qual caso il warfare metterebbe il turbo alla dato di crescita).
E devo dirvi, cari lettori, che da venerdì scorso mi sento meno solo, perché a definire una “frode” la narrativa della ripresa economica Usa, prevedendo violente reazioni dei mercati nella seconda metà di quest’anno, è stato niente meno che Albert Edwards di Societe Generale, uno che raramente sbaglia. Per Edwards, «il calo dei profitti negli Usa sta accelerando e non è una questione legata solo al comparto energetico o al dollaro forte, visto che sono stati pubblicati molti dati macro deludenti nel mese di febbraio. Il ciclo economico verrà abbattuto dallo scoppio delle bolle sugli assets molto prima che la politica di contrazione della Fed possa avere alcun effetto. Dall’ultima crisi abbiamo imparato molte lezioni ma non questa». Nella sua ricerca, Edwards dimostra come a livello macro quello attuale sia il peggior inizio anno dal 2009 e questo vale per molte voci, dalle vendite al dettaglio agli ordinativi alle spese personali ma anche i dati finanziari ed economici di molti giganti Usa, come Morgan Stanley o la catena di grande distribuzione WalMart, sono stati deludenti.
Insomma, un calo simile sugli utili di solito è associato a una recessione in grande stile negli Usa: «Con i mercati azionari sempre verso nuovi massimi mi verrebbe da dire che ho perso qualcosa di grosso per strada, ma posso solo ricordare che abbiamo già visto rally del genere e sappiamo tutti come sono andati a finire». E in effetti, febbraio è stato una brutta cartina di tornasole per l’economia Usa, in particolare la manifattura: il 17 è stato pubblicato il dato dell’Empire State Survey, sceso al 7.78 dal precedente 9.95 contro le attese di 8; il 19 è stata la volta del Philadelphia Fed Business Outlook calato al 5.2 dal 6.3 contro le attese di 9.0; Il 23 è toccato al Dallas Fed Manifacturing Activity, sceso a -11.2 da -4.4 e atteso a -4.0; il giorno seguente ecco il Richmond Fed Manifacturing Index, calato a 0.0 da 6.0 e ben al di sotto delle attese di 6.0; il 26 febbraio è stata la volta del Kansas City Fed Manifacturing Activity, sceso a 1 da 3 e atteso stabile a 3; per finire il 27 febbraio l’Insitute for Supply Management di Milwaukee postava un 50.32 da 51.60 e attese a 54. Al tutto unite gli ultimi dati che vi ho fornito qui sopra e vedrete che se anche due settimane non posso rappresentare un trimestre di crescita, abbiamo dati negativi in un settore chiave dell’economia da tutte le aree del Paese, oltretutto con i dati che peggiorano sia dai livelli mensili precedenti che rispetto alle aspettative degli analisti.
E a confermare i rischi paventati da Edwards – e più modestamente dal sottoscritto – ci ha pensato anche l’ex numero uno della Fed, Alan Greenspan, a detta del quale «la crescita economica Usa non è affatto forte e di fatto la Fed è il principale motore dell’espansione dei multipli di utile per azione a Wall Street. Il fatto che ci siano tassi a lungo termine bassi è la chiara indicazione di quanto sia debole la crescita globale, visto che la domanda effettiva è straordinariamente bassa, pari a quella degli ultimi stadi della grande depressione». E ancora: «La politica monetaria non è responsabile della debolezza economica, è una questione fiscale, mentre l’azione della Fed è responsabile per l’inflazione presente sui mercati azionari in forma di sovravalutazioni delle equities. Come andrà a finire? Dipende, quando i tassi di interesse reali cominceranno a salire, allora la crisi potrebbe colpire. La maggior parte dei problemi che abbiamo è legata alla mancanza di investimenti a lungo termine e questo perché nessuno vuole investire a lungo quando non sa cosa sta per accadere. Il mercato azionario è in un grande momento oggi, non l’economia Usa».
A dirlo è l’ex governatore della Fed, quindi conviene prendere le sue parole come un monito. E attenzione, perché la commodity industriale più strettamente correlata a Pil e inflazione negli Usa, il legname da costruzione, sta conoscendo un calo dei prezzi che grida “recessione” e una dinamica di andamento che risuona come un sinistro déjà-vu, come ci dimostra il primo grafico. Anche perché come ci mostra il secondo grafico, la “croce della morte” sta ampliandosi sempre di più: nonostante 19 Banche centrali abbiano dato vita a politiche di stimolo dall’inizio dell’anno, al rally infinito dei mercati è corrisposto un continuo crollo delle aspettative per la crescita del Pil globale, ormai ai minimi del ciclo. Cosa potrebbe succedere quando e se la fiducia cieca nell’azione delle Banche centrali dovesse cominciare a sgretolarsi?