La moda dei tassi bassi non passa. Anzi. La Federal Reserve, messa alle strette dalla forte ripresa dell’occupazione, ha confermato di aver poca o nessuna voglia di procedere al primo rialzo del costo del denaro dal 2006. Si potrà, al più, ritoccare all’insù l’asticella da giugno o, più facile, da ottobre. Ma solo dopo una correzione al rialzo dei dati in arrivo dall’economia Usa che, al contrario, per ora mostra segnali di frenata, condizionata com’è dal rialzo del dollaro.



La banca centrale Usa, per ora, non fa tagli, ma si moltiplicano intanto quelli degli altri. La mossa più importante è stata quella della Bce che ha già avuto importanti riflessi sul costo del denaro e sul livello dei cambi. Anche il sistema dei prestiti Tltro, che dovrebbero essere veicolati dalle banche ai prenditori finali, è entrato finalmente in piena azione. Francoforte ha assegnato a 143 banche della zona euro 97,848 miliardi di fondi a quattro anni, il doppio della previsione che indicava per l’ultima finestra richieste per 40 miliardi di euro. A beneficiarne sono soprattutto le banche italiane, che si sono aggiudicate circa un terzo del totale dei fondi, attorno ai 32 miliardi. È un ottimo supporto per l’economia italiana, viste le ristrettezze degli istituti di credito, alle prese con oltre 185 miliardi di sofferenze. 



Ma la Bce non è sola a stampare moneta. Dall’inizio dell’anno 24 banche centrali hanno proceduto a operazioni di Quantitative easing o, il che è lo stesso, di svalutazione della propria valuta per sostenere l’export e combattere la deflazione. Il Giappone procede sulla via dell’Abenomics, la Cina, al pari di India e Israele, ha ridotto il costo del denaro. E così via. Non c’è area del pianeta che non sia stata contagiata dal trend della moneta debole. L’Asia, in particolare, contende a Eurolandia il titolo di terra a tasso zero. Nelle ultime settimane hanno tagliato più o meno tutti: Corea del Sud, Vietnam, Tailandia. E si sono mossi anche Singapore, Nuova Zelanda e Australia. Chi sta fermo, come il Sudafrica o l’Indonesia, si accontenta del crollo della valuta (mai così bassa la rupia dal 1998), che favorisce le vendite negli Usa. 



Insomma, i tassi restano ovunque “eccezionalmente” bassi (ma l’eccezione dura ormai da sette anni o anche più). C’è da chiedersi se questo trend è destinato a favorire o meno la ripresa. Messa così, la domanda è fuorviante. In realtà, la politica espansiva ha consentito al pianeta di avere negli ultimi sette anni una crescita non inferiore ad altri cicli più favorevoli. Ma a costo di una crescita impressionante del debito. Il Quantitative easing, argomenta Martin Wolf sul Financial Times, non è tanto una terapia escogitata dai signori delle banche centrali, quanto una conseguenza di una situazione che i banchieri subiscono. La conferma sta nel fatto che l’inflazione non accenna a risalire. E così si spiega perché la Bce, che nel 2011 aveva aumentato il costo del denaro su pressione degli ortodossi della Bundesbank, ha dovuto invertire la sua strategia, adattandosi alle indicazioni di herr Draghi.

I tassi bassi non sono dunque una libera scelta o un espediente geniale, bensì la conseguenza della domanda bassa di quattrini da parte del sistema. Le decisioni della Fed, al pari del bazooka di Draghi, stanno a ricordare che la situazione è tutt’altro che allegra: gli Usa non sono in grado di sostenere il rialzo dei tassi; nelle economie Emergenti si moltiplicano i segnali di crisi, a partire da Brasile e Turchia; lo stato depresso dei prezzi delle materie prime pesa sul Sud America; la svalutazione delle valute asiatiche rischia di esser l’avvisaglia di guerra tra esportatori. E in Europa, oltre a dramma greco, basta l’assedio alla sede della Bce nel giorno della sua inaugurazione a ricordare la situazione di molti cittadini anche in Germania.

Come uscire dalla spirale della crisi? Mario Draghi continua a ripetere che il Qe da solo non basta. Occorre, semmai, accelerare il cammino delle riforme strutturali, in assenza delle quali per molto tempo la Bce dovrà, come ha fatto ieri, registrare i ritardi e le mancanze dei governi. La gravità degli squilibri sta aumentando in diversi Paesi, ricorda il Bollettino economico della Bce, aggiungendo che questo risultato è preoccupante poiché una delle ragioni principali per introdurre la procedura per gli squilibri macroeconomici (Psm) era che tale procedura poteva aiutare ed evitare l’emergere di squilibri dannosi e favorire il rientro degli squilibri esistenti. La terapia, dunque, è di sfruttare il tempo guadagnato grazie all’ossigeno somministrato dal Qe per correggere le inefficienze della finanza pubblica e correggere i deficit di investimento. Ma è la terapia giusta?

Richard Koo, chief economist di Nomura e grande esperto della crisi giapponese, dissente: la recessione europea dipende dai saldi di bilancio. Il settore privato, in una congiuntura segnata dagli alti debiti preferisce risparmiare (vedi le famiglie) a danno di domanda e investimenti (vedi imprese). Per curare la malattia, perciò, è necessario che la domanda pubblica prenda il posto dei privati. L’opposto dell’austerità, che rischia di rendere la situazione sempre peggiore grazie ad alcuni effetti perversi: l’Italia, in cui i risparmi privati rappresentano il 7% del Pil, non può utilizzare queste risorse perché il trattato di Maastricht dice che non può avere un deficit superiore al 3%. E il surplus finisce in Bund tedeschi o nei T-Bond Usa. Le riforme strutturali proposte da Draghi, dice Koo in un’intervista a Il Corriere della Sera, “equivalgono alla dieta e ai servizi da seguire quando si è malati”. Ma la dieta da sola non ha alcuna efficacia, quando si ha fame, come capita ad Atene e dintorni. 

Ben venga il Qe e si isoli il paziente greco, tentato dall’autolesionismo. Ma si riscoprano i vantaggi di una forte iniezione di capitali per favorire investimenti pubblici su scala continentale, magari affidati a chi li sa fare. Senza illudersi che il bazooka di Draghi equivalga alla bacchetta magica di mago Merlino. Altrimenti il Qe, nato con l’opposizione della Bundesbank, servirà a ridare ossigeno all’export della Bmw, grazie all’euro debole e al denaro a costo zero. Ma non a evitare la deriva della Grecia verso il fallimento.