Ha ragione la Banca centrale europea a bacchettare l’Italia perché non riduce il debito (l’unico sollievo viene dal taglio degli interessi), non cresce abbastanza e se la prende comoda con le riforme strutturali che dovrebbero aumentare la concorrenza e la competitività? O ha ragione Pier Carlo Padoan, secondo il quale l’applicazione meccanica della regola del debito è controproducente perché rischia di prolungare la recessione e, di conseguenza, peggiorare il rapporto tra debito e pil? Il duello in punta di dottrina economica rischia di oscurare il senso politico del messaggio che viene dall’Eurotower di Francoforte.
Immaginiamo che Mario Draghi prenda di nuovo carta e penna e indirizzi una lettera a Matteo Renzi. Una missiva magari meno pesante e solenne di quella inviata nell’agosto 2011 a Silvio Berlusconi. Diciamo che potrebbe essere un memorandum per ricordare quel che il capo del governo italiano e il presidente della Bce si sono detti nell’agosto scorso vicino a Città della Pieve. Ebbene, che cosa scriverebbe in tal caso Draghi?
Al “caro Primo Ministro”, dopo aver apprezzato i passi avanti compiuti sul cammino del risanamento e delle riforme di struttura, non potrebbe non rammentare le cose che restano da fare, sottolineando con rammarico che alcune erano già scritte nella lettera di quattro anni fa. Rileggendone il testo, in effetti, colpisce subito che le prime e fondamentali raccomandazioni non sono state ascoltate. Eccole qua parola per parola:
“Vediamo l’esigenza di misure significative per aumentare il potenziale di crescita. Le sfide principali sono l’aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno dei sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l’efficienza del lavoro”.
La lettera proseguiva con tre proposte concrete: “a) la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala”; b) “riformare ulteriormente il sistema di contrattazione collettiva premettendo accordi a livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di contrattazione”; c) “un’accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento stabilendo un sistema di assicurazione della disoccupazione e di politiche attive per il mercato del lavoro”.
Con il Jobs Act si viene incontro al punto c); sul punto b) l’Italia resta a metà del guado; mentre è clamorosamente mancata la riforma che la Bce metteva al primo posto.
Nella seconda parte, la lettera si sofferma sulle finanze pubbliche. Qui alcuni parametri sono cambiati in meglio, per esempio il deficit e il peso degli interessi. Ma allora il governo Berlusconi si era impegnato a pareggiare il bilancio nel 2014. Invece, il pareggio è slittato e adesso se ne parla nel 2017. La “clausola di riduzione automatica del deficit” è saltata, l’obiettivo viene definito anno dopo anno, anzi aggiustato ogni sei mesi. Quanto a mettere “sotto stretto controllo l’indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali”, per adesso non è cosa.
Se Draghi, dunque, volesse scrivere di nuovo al governo italiano, gli basterebbe un copia e incolla. Con in più alcune note amare. Una volta apprezzata la riforma del mercato del lavoro e, almeno in gran parte, quella delle pensioni, il presidente della Bce potrebbe rimproverare all’Italia di aver basato l’aggiustamento dei conti quasi esclusivamente sull’aumento delle imposte, facendo crescere in modo eccessivo la pressione fiscale sulle famiglie, sugli individui, sugli immobili e sulle imprese. Draghi, del resto, lo ha già detto in più occasioni anche ex cathedra.
A fronte di questo, la spesa pubblica è rimasta sostanzialmente immutata nella sua qualità e anche rispetto al prodotto lordo. Non solo, la spending review è fallita e Carlo Cottarelli non è stato rimpiazzato perché il governo Renzi non ci crede. È una differenza di fondo con l’impostazione della Bce. Il ministro Padoan cerca di sfumarla sostenendo che la revisione della spesa non è più un evento eccezionale, ma viene incorporata di volta in volta nella politica di bilancio. Vedremo. Finora non è successo.
Sulle privatizzazioni si va avanti a spizzichi e bocconi, quando c’è bisogno di fare cassa. Le liberalizzazioni non sembrano una priorità. Una grande ristrutturazione dei servizi pubblici e privati, che darebbe una spinta forte alla produttività del sistema Italia, non è prevista nel programma di governo.
Gli ulteriori sforzi per ridurre il debito e l’accelerazione delle riforme chiesta dalla Bce, non hanno tanto a che fare con l’austerità (il pareggio del bilancio sì, questo resta il leitmotiv), quanto con tutto ciò che è destinato ad “aumentare il potenziale produttivo”, come scrive in modo esplicito il bollettino.
Se le cose stanno così, dunque, è inutile e sbagliato prender cappello. Non c’è nessun onore da salvare, né macchie da lavare, c’è da ragionare con sincerità e umiltà su tutto ciò che non è stato fatto e bisogna realizzare con urgenza, per evitare di trovarci di nuovo al centro delle prossime tempeste che arriveranno magari per colpa della Grecia o della Federal Reserve se aumenterà bruscamente i tassi d’interesse (ipotesi probabile la prima, scongiurata per il momento la seconda).
Draghi ha lasciato parlare i suoi economisti, ma chissà che non scenda in campo direttamente e in modo esplicito, durante una delle sue conferenze stampa nelle quali è capace di lanciare stoccate come ha fatto nei confronti del nuovo governo greco. O su carta intestata, perché scripta manent, anche se finiscono in un cassetto.