Davvero difficile scegliere fra le motivazioni macro e micro che ieri hanno soffiato tutte nelle vele dei titoli bancari italiani (+2,3% lo spunto dell’indice settoriale in Piazza Affari). Da un lato il pressing delle authority (Bankitalia lunedì e Consob ieri) a favore di una “bad bank” con garanzia pubblica, ha rinfocolato in modo sostanziale le attese di uno scarico pilotato dei 180 miliardi di sofferenze accumulate nei conti dei grandi gruppi. Ma la Borsa si è mossa sulla cronaca dando per scontato, in serata, il via libera – con voto di fiducia – al decreto Popolari, che vincola le grandi cooperative creditizie a trasformarsi in Spa entro 18 mesi. Benché la versione finale della riforma autorizzi l’introduzione di un tetto del 5% al posesso votante, l’accelerazione impressa dal governo sul terreno della scalabilità e dell’aggregabilità di dieci banche italiani grandi e medie è ora un fatto compiuto.



Al di fuori questi due binari – risanamento straordinario e fiscalmente agevolato dei bilanci e spinta al riassetto del sistema – è comunque evidente che il “Quantitative easing” deciso e ora attuato dalla Bce sta tonificando l’eurozona a vari livelli: direttamente i suoi listini azionari (resi attraenti dai “tassi zero” dei comparti monetari e obbligazionari dei mercati), a maggior ragione quando resta valido presso gli analisti lo schema della “staffetta” fra la politica espansionistica della Fed (che sta già valutando il rialzo dei tassi) e quella della Bce, che invece immetterà liquidità almeno fino al settembre 2016. Se Wall Street è accreditata dei suoi massimi, in questa prospettiva non lo sarebbero ancora le Borse europee: quella italiana, a ogni buon conto, ieri ha toccato i suoi massimi dal 2010. E – nonostante gli estenuanti tira-e-molla fra Grecia, Ue, Germania – nuovi focolai di crisi sistemica nell’Eurozona non sono alle viste.



Ma le banche italiane – che nell’autunno 2011 venivano date per fallite dalla speculazione e non lo erano – sono improvvisamente divenute gioielli anche se fiaccate da tre anni di spread alto e di Pil sotto zero? Sì e no. Sì – anzitutto – se l’Azienda-Italia ripartirà davvero, ricreando quindi condizioni favorevoli al commercial banking, business tradizionale del settore bancario italiano. No – tuttavia – se le grandi banche italiane si presenteranno all’appuntamento zavorrate di “bad loans” che le nuove ganasce della vigilanza Bce pongono oggi all’espansione dell’operatività dei singoli istituti. Analogamente sul versante delle fusioni e acquisizioni: largamente il più gradito dagli investitori, rispetto alle aspettative sui “fondamentali”. 



Un conto è immaginare che su una delle grandi Popolari vengano lanciate Opa integrali, per cassa, in tempi ravvicinati: senza attendere i cambi di statuto. Ipotesi non probabile, ma neppure impossibile: se il governo ha forzato la riforma per decreto, Bankitalia si è augurata in termini generali che il comparto delle Popolari si riaggreghi, ma non ha mai ventilato qualche contrarietà all’arrivo di una scalata estera. Per di più (il caso Pirelli lo ha confermato) l’attenzione dei grandi investitori istituzionali per le aziende strategiche europee è in crescita.

Meno attraente – soprattutto dal punto di vista di hedge fund e altri gestori alternativi – il percorso che pare più disegnato per le banche italiane: un sentiero di fusioni graduali – fra Popolari o con il coinvolgimento di altri gruppi – sotto l’occhio delle autorità di vigilanza. Non si profila necessariamente una situazione poco vivace per i titoli: in tutte le grandi Popolari sono in pre-formazioni noccioli duri di investitori stabili, che presidino nell’immediato le Popolari Spa. E questi nuovi pacchetti rilevanti andranno costituiti in tempi non lunghi.

Certo, successive fusioni – ed è difficile che non ne vengano messe in cantiere – riproporranno il tema del controllo della nuove super-Popolari. Questo, sulla carta, dovrebbe fare nuovamente bene ai titoli. Sperando che nel frattempo il cammino di riforma e di riassetto del settore abbia fatto bene alle banche e quindi all’economia che le circonda.

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