Quando Enel fu costretta dal governo a scindere da se stessa la rete di trasporto dell’alta tensione, creare Terna e privarsene, lo fece senza colpo ferire e i suoi conti cambiarono nel modo più ovvio: introito immediato per la cessione di quote, canone di utilizzo della rete da pagare come gli altri operatori, alle stesse condizioni, investimenti autogestiti da quel momento in poi dalla stessa Terna.



Quanto l’Eni fu costretto dal governo a cedere il controllo di Snam, consentendo così la nascita di Snam Rete Gas, strepitò a lungo – e con il peso politico di un grosso calibro come Paolo Scaroni rallentò il processo -, ma alla fine ottemperò e ne ricavò un ottimo profitto senza perdere colpi sul mercato dell’estrazione e distribuzione del gas, pur dovendo da quel momento in poi pagare l’uso dei gasdotti al pari dei concorrenti.



Perché Telecom Italia da vent’anni protesta, in tutte le lingue e sotto tutte le guide, che senza la proprietà dalla rete muore? O tale affermazione è falsa; o se è vera, dimostra che la proprietà della rete conferisce a Telecom una posizione di vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti troppo preziosa da poter essere scambiata con un forte introito connesso alla vendita della rete stessa. Ma se così è bisogna che immediatamente l’Antitrust e l’Agcom intervengano a cancellare questa grave e nociva asimmetria!

Questo ragionamento rimbalza in queste ore per il sommarsi di due scenari. Il primo riguarda ciò che tutto l’establishment italiano ha pensato dopo l’annuncio della vendita della Pirelli ai cinesi: Telecom, con i suoi 21 miliardi di capitalizzazione borsistica e senza un padrone a controllarla, è un bocconcino per qualunque di questi grandi gruppi internazionali che, spesso con uno Stato sovrano alle spalle, sono pronti a fare un’Opa e a prendersela, se appena si convincono che ne vale la pena. Il secondo scenario è invece relativo all’eterna querelle sulla costruzione della rete in banda larga di nuova generazione, che Telecom ritiene di poter realizzare da sola, semmai comprandosi dallo Stato Metroweb. Non ci crede nessuno. E quelli che ci credono, pochi, non sono d’accordo. 



Chi non ci crede lo fa prevedendo di qui a un anno una ripresa dei tassi d’interesse (se c’è ripresa, c’è inflazione e i tassi risalgono) tale da rincarare il costo del debito di Telecom e impedirle di fare anche quegli investimenti comunque secondo molti insufficienti per potenziare la rete. Chi ci crede, non è comunque d’accordo a che Telecom Italia “faccia da sé”, perché l’interesse del Paese vuole che la rete sia unica, e che quindi anche i pezzi oggi controllati da altri gruppi, come Metroweb, Vodafone e Fastweb, convergano sotto la stessa proprietà: ma una proprietà “pluralista”, non monopolista.

Come finirà? Non è difficile prevederlo. Se il titolo Telecom è salito del 24% negli ultimi mesi non è tanto per il prevedibile ritorno all’utile che si è concretizzato un paio di settimane fa, ma perché, privo com’è di un socio stabile e forte, il gruppo telefonico nazionale è chiaramente scalabile da chiunque voglia. E più si risana più è scalabile. 

Salvo un ostacolo, giuridico: il golden power legato proprio al possesso della rete d’accesso nazionale. Se arriva un qualsiasi compratore, soprattutto straniero, lo Stato può, legittimamente anche rispetto alle norme europee, dire di no e bloccare l’Opa. Salvo… salvo fare quel che sbloccherebbe, invece, il mercato. Autorizzare l’Opa subordinatamente allo scorporo e alla cessione della rete da parte di Telecom. La “nuova” Telecom sarebbe, dunque, la società della rete, la “Terna” della situazione, aperta alla partecipazione di tutti gli operatori ma, proprio come Terna e Snam rete Gas, partecipata o controllata dallo Stato.

Non bisogna fidarsi dei gossip, ma pare che su questo scenario stiano lavorando molto in America, dalle parti di At&t.