Sono passate quasi due settimane dal mio ultimo intervento su queste pagine e non è cambiato nulla, mi sembra di essere Bill Murray in “Ricomincio da capo”, destinato a vivere ogni santa giornata che il Signore manda in terra identica a quella precedente e nell’attesa di un’altra che ne sarà la fotocopia. Ancora oggi l’Europa è alle prese con il problema greco, ovvero con la patetica mistificazione ellenica in base alla quale viene spacciata per difesa della dignità nazionale nient’altro che la volontà da parassita di continuare a spremere soldi per restare in piedi a dispetto dei Santi e di conti da mani nei capelli. 



Il problema è che nessuno può permettersi che Atene dichiari default, perché l’istante dopo il mercato comincerebbe seriamente a chiedersi quando Spagna o Portogallo o Italia faranno lo stesso, dicendo addio all’euro e dando vita a un’ondata di vendita sull’obbligazionario sovrano capace di trasformare quella panzana clamorosa del Qe della Bce in un’operazione di cassa del Credito Cooperativo di Codazzo. Non vi siete accorti anche voi che da quando l’ipotesi del cosiddetto Grexit si è fatta più probabile, i soloni del “no euro” hanno abbassato pesantemente la cresta, limitando anche le comparsate televisive? Eh già, perché finché si campa sui periodi ipotetici e la fanta-economia siamo capaci tutti di dire che bisogna tornare alla dracma, alla lira, all’escudo o alla peseta, ma quando questo scenario diventa “probabile” allora bisogna fornire ricette reali, qualificanti, per gestire quel passaggio: e lorsignori non le hanno, semplicemente perché se lo scioglimento dell’euro non sarà concordato a livello europeo tra tutti i Paesi membri, con il Fmi a garanzia, il primo che si azzarda a lasciarlo muore schiacciato dai mercati in un weekend. 



In compenso, ho sentito Draghi riempirsi la bocca con la parola ripresa, garantita da euro debole, petrolio dal costo bassissimo e Qe che facilita la fornitura di liquidità: balle, il mondo sta in piedi soltanto per l’aspettativa garantita dalla Fed rispetto all’aumento dei tassi, altrimenti saremmo già nel più nero dei 2008-bis conclamati. E sapete perché? Ricordate il GDPNow della Fed di Atlanta di cui vi ho parlato in uno dei miei ultimi articoli, ovvero il tracciatore del dato di crescita Usa in tempo reale, il quale con l’aumentare dei dati macro disponibili diventa sempre più raffinato e quindi preciso? Bene, il 3 di marzo scorso ci parlava di un Pil statunitense per il primo trimestre di quest’anno all’1,2%, non male rispetto all’asfittica Europa ma ben lontano dal turbo +5% del terzo trimestre del 2014: siccome negli Usa va tutto bene e i dati macro finora pubblicati sono degni di una celebrazione in grande stile, il 12 marzo quel dato era già ridotto alla metà, ovvero un misero 0,6% di Pil nei primi tre mesi di quest’anno. E oggi, a che punto siamo? 



Il 18 marzo scorso, ultimo dato reso noto dalla Fed di Atlanta, il dato di crescita statunitense è a +0,3%, dimezzato un’altra volta, come ci dimostra il primo grafico a fondo pagina. Ovvero, come vi avevo detto, verso metà di quest’anno l’economia Usa viaggerà attorno allo 0% ed entrerà ufficialmente in recessione, nonostante tecnicamente ci sia già. E cos’ha trascinato così tanto al ribasso questo indicatore, storicamente molto più accurato degli altri nel tracciare il Pil? Gli investimenti non residenziali, ovvero pozzi petroliferi e tutte le strutture annesse al comparto energia, devastato dai prezzi sempre più in calo dell’oro nero, come ci mostra il secondo grafico, tanto che il dato di crescita del settore nel mese di marzo è passato da -13,3% a -19,6%, un massacro. 

Ma c’è di più, sempre legato alla questione petrolio: con la produzione Usa di Wti che non accenna a diminuire, nonostante i prezzi in picchiata, entro due mesi negli Usa non ci sarà più spazio fisico per stoccare quanto viene pompato dai pozzi, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina e questo significa una sola cosa. Ovvero, che da giugno in poi – se non ci sarà un’inversione di tendenza netta nelle dinamiche dei prezzi – ogni nuovo barile di petrolio prodotto dovrà essere forzatamente riversato sul mercato a qualsiasi prezzo, portando quindi con sé una dinamo ulteriormente ribassista del trend e creando ancora maggior danno all’intero comparto, con ricadute devastanti sul lato finanziario e sulle obbligazioni ad alto rendimento emesse in massa dalle aziende shale oil per finanziarsi, alcune delle quali hanno già fatto default su prime scadenze di soli interessi! Tanto che Societe Generale, nel suo ultimo report, ipotizza addirittura prezzi nell’area dei 20 dollari al barile per il Wti, visto che «il mercato potrebbe dimostrarsi impaziente e i prezzi potrebbero calare in maniera considerevole: attualmente, la nostra maggiore attenzione e preoccupazione è sul lato ribassista, non rialzista». 

E attenzione, perché proprio nel mese di giugno, quando la capacità di stoccaggio arriverà al limite, nel North Dakota è previsto il balzo maggiore della produzione, a prescindere dalle dinamiche dei prezzi, come conferma Lynn Helms, direttore del Department of Mineral Resources, a causa di due fattori: «Un limite temporale per la trivellazione a livello statale e un atteso incentivo fiscale». E non parliamo di un qualcosa da poco: «La produzione nel bacino di Bakken potrebbe salire improvvisamente del 10%, ovvero tra i 75mila e 100mila barili in più al giorno nel mese di giugno. Stiamo parlando di qualcosa di mai visto, un vero e proprio record storico per i produttori del North Dakota quest’estate», un record che potrebbe schiantare il prezzo a livelli insostenibili e tramutare l’effetto benefico del basso prezzo dell’energia, mai sostanziatosi negli Usa a livello di maggiori consumi da parte dei cittadini (basti vedere gli ultimi dati delle vendite al dettaglio), in un incubo in piena regola, prima di tutto per Wall Street, dove alcuni segnali tecnici già parlano di una correzione in fieri (stando i multipli di utile per azione ormai ampiamente sopra quota 26x, insostenibile a meno che le aziende Usa non decidano di tornare profittevoli), ma anche altrove, ad esempio il Canada, dove l’energia pesa per il 10% del Pil e il 25% dell’export e la crisi del prezzo ha già portato all’effetto correlato di un crollo delle vendite immobiliari del 65%! 

Ma non basta, perché è l’intero impianto di intervento delle banche centrali a essere andato fuori giri, visto che come ci mostra il secondo grafico, la Bank of Japan è intervenuta con acquisti diretti di titoli azionari nel 76% dei casi in cui il mercato aveva aperto al ribasso al Nikkei. Già, proprio così, negli ultimi due anni la Banca centrale nipponica si è tramutata in net buyer ogni tre giorni, acquistando titoli per un totale di 2,8 triliardi di yen (23 miliardi di dollari) su Etf che tracciano i principali indici azionari, una differenza netta rispetto a Fed e Bce che – almeno ufficialmente – si sono limitate ad acquisti obbligazionari. 

 

 

Già, la Bce, la stessa che Mario Draghi spaccia come grande demiurgo della ripresa europea: sapete qual è stato il controvalore dei suoi acquisti nella prima settimana di Qe? Solo 9,8 miliardi di euro, una quantità minima che però è riuscita a mandare fuori giri del tutto il mercato obbligazionario europeo (basti vedere il dato degli spread in risalita) a causa della totale mancanza di collaterale, drenando nel processo buona parte della liquidità del sistema, basti vedere le metriche degli acquisti sul Bund che mostrano come l’intervento della Bce abbia di fatto cancellato il concetto stesso di neutralità di mercato, operando oltretutto in un segmento che trada rendimenti negativi lunga un’ampia fetta della curva. 

Insomma, nel silenzio più totale dei grandi media, troppo impegnati in peana di Draghi e del suo operato, la Bce sta seguendo la china catastrofica della Bank of Japan, oltretutto in un contesto globale che dimostra giorno dopo giorno come l’intervento delle Banche centrali sia servito unicamente a mantenere i corsi azionari vivi e pronti a sempre nuovi record a dispetto dei dati macro: come dimostra il grafico a fondo pagina, nonostante da inizio anno siano stati 21 gli istituti centrali impegnati in manovre di politica monetaria, il 70% dei paesi sviluppati al mondo a oggi ha un tasso di inflazione minore dello 0,5%! 

Insomma, siamo sull’orlo del precipizio, ogni giorno di più, ma la capacità dissimulatoria della Fed rispetto all’aumento dei tassi di interesse (conferma indiretta del dato GDPNow della Fed di Atlanta, visto che se la crescita fosse quella turbo del terzo trimestre, nessuno dovrebbe temere un aumento di un ridicolo quarto di punto dopo nove anni di tassi in calo) ancora sembra capace di guadagnare tempo, più che altro per il timore diffuso a livello globale di dover altrimenti affrontare la realtà. Ma non manca molto, vi assicuro e lasciate che siano i grandi giornali a occuparsi della pantomima greca: non conta nulla, è solo un messaggio politico-psicologico quello che arriva da Atene, alla fine sono sempre gli Usa a tenere il banco. 

Cosa attenderci sul breve? Io starei molto attento al fronte yemenita, dove i ribelli armati dagli Usa stanno avanzando a Sud verso il porto di Aden e sembrano pronti ad aprire il fronte della nuova “proxy war”, questa volta capace di coinvolgere il bersaglio grosso dell’area, ovvero Iran e Arabia Saudita, quindi anche la chiave petrolifera dell’area, quel driver che potrebbe riportare in alto e in tempo molto breve le dinamiche di prezzo del petrolio, oltre a garantire a Washington una resa dei conti che attendeva da tempo tra i due storici nemici, adesso divisi soltanto da uno Stato che pare ora dopo ora destinato a terminare nel caos garantito dai ribelli sciiti. 

L’Europa, come al solito, dorme il sonno dei giusti e ancora rincorre i fantasmi da studio hollywoodiano dell’Isis e dei suoi video in HD: la grande finanza ha deciso che è ora di mettere in operatività massima la centrale del caos, ovvero l’unico mezzo per garantire l’ordine globale denominato in biglietti verdi e sempre più messo in discussione dalla Cina e dal suo interventismo economico a livello globale, non ultimo il Fondo di investimento infrastrutturale cui hanno aderito anche Gran Bretagna, Francia, Germania a Italia (caso strano, la firma di adesione del nostro Paese è avvenuta il giorno prima dello strano attentato di Tunisi). A vostro modo di vedere, altrimenti, la nuova grande crisi finanziaria non sarebbe già esplosa, stante la realtà macro che stiamo vivendo? 

Attenti a ciò che vi dicono e a ciò che ritenete prioritario, nel 99% dei casi potrebbe essere solo una cortina fumogena. Minaccia dell’Isis in testa.