Caro gestore, compra italiano. È l’invito che il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha rivolto mercoledì in Bocconi ai protagonisti di una delle poche industrie italiane che, in questi ultimi anni, ha goduto di buona salute: il risparmio gestito. Un primato conquistato tra non poche difficoltà, dal trattamento fiscale del risparmio, specie previdenziale, meno generoso di quello garantito da altri paesi, alla concorrenza delle grandi case internazionali, che hanno capito con largo anticipo sulle banche nostrane che il giardinetto del risparmio italico celava vere e proprie miniere di profitti potenziali.
Difficoltà che esaltano ancor di più i risultati del sistema. A febbraio l’industria dei fondi di investimento ha registrato una maggior raccolta netta di oltre 20 miliardi di euro, più del doppio dei 9 miliardi e rotti di gennaio. Il patrimonio del risparmio gestito è salito a un nuovo record, pari a 1.675 miliardi, una fetta sempre più rilevante della ricchezza finanziaria degli italiani che, secondo i dati più recenti della Banca d’Italia, ammonta a 3.848 miliardi di euro che salgono a 9.614 miliardi se si tiene conto di una stima credibile del risparmio immobiliare.
Numeri che in parte giustificano lo scetticismo con cui nei momenti più bui della crisi del 2011 i media tedeschi rinfacciavano agli italiani di volersi sottrarre al rigore di bilancio nonostante il benessere diffuso. E lo possono rinfacciare ancora, anche ai tempi del Quantitative easing e del denaro a rendimento zero come i Btpei assegnati ieri dal Tesoro.
Già perché, come nota Morya Longo su Il Sole 24 Ore, nonostante l’apporto dei prestiti Tltro erogati dalla Bce di cui le banche italiane sono le prime destinatarie, il credito bancario risulta rispetto ad allora ancora sotto di 100 miliardi circa. Una cifra rilevante, ma che ammonta al 2,5% del patrimonio delle famiglie. Non solo. Se si guarda all’allocazione delle risorse si scopre che solo l’1,5% dei risparmi finisce direttamente dal portafoglio delle famiglie in azioni od obbligazioni delle aziende italiane quotate o meno. La percentuale sale (si fa per dire) al 6% per le compagnie assicurative e al 2,5% per i fondi pensione: più o meno un ventesimo di quanto destinano i giganteschi fondi pensione giapponesi al listino di Tokyo, per giunta sostenuto negli ultimi anni da robusti acquisti della banca centrale. Il Sol Levante, altro Paese ove, nonostante la crisi, le famiglie continuano ad avere un’alta propensione al risparmio, affida così buona parte delle sue speranze di ripresa al portafoglio dei cittadini.
E da noi? In questi anni molti fattori hanno contribuito a favorire la diversificazione degli investimenti degli italiani oltre confine. A partire dalla struttura dell’eurozona che ha favorito la concentrazione dei risparmi di italiani (ma anche degli spagnoli, ad esempio) verso i listini forti dell’area euro: in assenza di rischio valutario, i capitali si sono mossi verso le aree più sicure con il risultato di allargare la forbice. Inoltre, limiti di governance delle imprese, scarsità di prodotti dedicate alle piccole e medie imprese, concorrenza delle banche e dello Stato hanno fortemente compresso le chance di crescita della Borsa o il decollo degli eurobonds.
Oggi, promette il ministro Padoan, si volta pagina. Il momento è propizio, visto che i titoli di Stato ormai rendono zero. Meglio sarebbe, però, se le scelte dell’esecutivo puntassero ad agevolare, e non a contrastare, il risparmio previdenziale a lungo termine. Oppure non si escogitasse il marchingegno dell’anticipo del Tfr in busta paga (con oneri fiscali non indifferenti), la punta dell’iceberg di un atteggiamento irresponsabile nei confronti della previdenza, l’iceberg contro cui rischia di andare a cozzare la pensione futura degli italiani.
Sarà questo il vero banco di prova della “finanza per la crescita”, il piano del governo che, al di là dei singoli provvedimenti, avrà successo solo se saprà risvegliare la fiducia degli italiani per un esecutivo che sappia guardare al di là dei sondaggi o degli orizzonti elettorali. Insomma, diversificare è bene. Però prima è meglio rafforzare le fondamenta di casa.
Molta strada è stata percorsa da quei terribili giorni del 2011, quando l’economia italiana, di colpo, fu costretta a fronteggiare un’emorragia di capitali internazionali in fuga dal Bel Paese. Quasi all’improvviso, la finanza pubblica si trovò a fronteggiare l’impennata dello spread oltre i 550 punti e a pagare tassi di interesse attorno al 7%, insostenibili nel medio termine. Tra le imprese, soprattutto piccole e medie, divenne di moda un termine quasi sconosciuto: il credit crunch, ovvero la stretta del credito che pure continua ancor oggi. Eppure, in cifre, l’Italia di allora non era più povera in termini di capitali.
Quel che mancava era l’apporto degli animal spirits. Anzi, c’erano. Ma a capirlo per primi furono gli operatori di Schroeder, Black Rock, Invesco, Fidelity e tutti gli altri colossi internazionali che hanno moltiplicato con successo i loro sforzi sull’Italia prima della reazione dei gruppi italiani, oggi finalmente alla riscossa.