Mario Draghi, ospite ieri del Parlamento italiano, non è stato tranchant come ventiquattr’ore prima il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan al Salone del risparmio (“L’economia italiana sta entrando in una finestra di opportunità, ma l’azione della Bce non ci condurrà a una situazione come quella precedente alla crisi”). Il presidente della Bce, nella Sala del Mappamondo di Montecitorio, non ha rinunciato a regalare una cifra tonda (l’1% di effetto-Quantitative easing sul Pil italiano): non prima di aver illuminato lo scenario dell’economia europea di “fiducia in una prospettiva di crescita forte e stabile”.



Oggi “la congiuntura economica è più favorevole che negli ultimi mesi – ha aggiunto – e tra i principali motivi ci sono gli effetti positivi del crollo dei prezzi dei prodotto energetici, la politica monetaria espansiva e le riforme strutturali varate in diversi paesi dell’area che cominciano a fare sentire i propri effetti”. Il presidente della Bce ha anche sottolineato che l’inflazione tornerà “a valori prossimi al 2%”. Rischio-deflazione meno pressante, dunque, e un trend di ritorno a un’inflazione “ideale” che potrebbe preludere davvero a un “new normal” solido: in cui anche i tassi abbandonerebbero l’innaturale “zero” di questa fase e potrebbe probabilmente avviarsi un effettivo “tapering” dell’iperliquidità sulle due sponde dell’Atlantico. Però…



Però anzitutto l’Italia non ha affatto finito i suoi “compiti a casa”, ha detto Draghi, che ha bocciato il mix di imposizione fiscale rigida a fronte di una spesa corrente che continua a crescere a scapito proprio degli investimenti che il governo dice di voler rilanciare. Ma non è stato questo il nocciolo più duro – molto duro – della lecture tenuta a Roma dall’ex governatore della Banca d’Italia.

La “funzione della Bce” resta “fragile”, ha sottolineato, fino a che tutti gli Stati-membri non avranno portato pienamente a termine i rispettivi programmi di “riforme strutturali”: e questo è reso più difficile se i meccanismi di riforma “restano affidatei agli ambiti nazionali”. Su questo terreno – ha affermato né più né meno Draghi – bisognerà pensare a “cambiamenti”.



È naturale pensare che il riferimento sia andato alla Grecia di Alexis Tsipras, tornata evasiva e riottosa dopo il voto soprattutto sugli impegni di risanamento del settore pubblico. Ma non è difficile immaginare che  – vista da Francoforte – l’Italia non ha certo esaurito il proprio cammino di “mutazione genetica” con riforme economiche pur rilevanti come il Jobs Act o la trasformazione accelerata delle Popolari in Spa.

L’Italia riparte (forse, lentamente) con un Pil reale tagliato di un decimo rispetto ai trimestri che videro deflagrare la crisi finanziaria globale. Fra quanto tempo avrà ricolmato il gap? E allora di quanto sarà stata tagliata la sua sovranità?