«Il mercato è il luogo della libertà economica, non mi riesce proprio di immaginare la cancellazione delle Popolari in nome del mercato. E tanto meno riesco a concepire la loro omologazione forzata alle Spa per decreto. In una democrazia evoluta – come tutti confidiamo sia quella italiana – un pezzo importante di Paese come il grande credito cooperativo può essere certamente riformato, ma a decidere quando e come dev’essere il Parlamento». Dall’autunno scorso Graziano Tarantini insegna Corporate governance alla Cattolica di Milano, mantenendo la presidenza di Banca Akros, l’investment bank del gruppo Bpm. È in Piazza Meda che Tarantini ha conosciuto dall’interno come funziona e come si guida una grande Popolare, arrivando a essere vicepresidente Bpm. Quando il decreto Popolari approda in Parlamento e inizia il conto alla rovescia verso la sua conversione in legge, Tarantini vuole riflettere assieme a Il Sussidiario sullo strappo del governo Renzi e sul futuro delle grandi cooperative bancarie.
Il governo Renzi ha posto la fiducia sulla conversione del decreto Popolari: quale sarà il finale di questa partita?
Confesso di essere scettico. Prima ancora che dai profili di politica creditizia, sono rimasto colpito dalle modalità istituzionali seguite dal governo per intervenire sulle Popolari. Il grande credito cooperativo è costitutivo del sistema-Paese praticamente da quando esiste l’Italia unita. Le Popolari rappresentano tuttora più di un quinto dell’intermediazione del risparmio delle famiglie italiane verso il credito alle imprese italiane. In democrazia tutto può cambiare, qualche volta deve cambiare: ma con gli strumenti propri di una democrazia evoluta come quella italiana, anzitutto attraverso la sovranità parlamentare. Quando il sistema-Paese decise di modernizzare le Casse di risparmio e le grandi banche pubbliche in vista dell’euro lavorarono per anni figure come Guido Carli e Giuliano Amato, Nino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi. E la trasformazione in Spa della Cariplo o del San Paolo di Torino fu promossa per legge delega, non imposta con un decreto nell’arco di una notte. Se oggi Cariplo e San Paolo sono i pilastri di un “campione nazionale” come Intesa è anche perché quel percorso di privatizzazione e riassetto del sistema bancario partì col piede giusto sul piano delle regole e dell’azione di governo.
Renzi ha detto che le Popolari italiane devono adeguarsi pienamente alle logiche del mercato…
Renzi, secondo me, ha puntato anzitutto sull’ennesimo effetto-annuncio prima del World economic forum di Davos: un punto d’incontro di giganti finanziari globali che non so quanto sia corretto identificare con “il mercato”. Personalmente resto dell’idea che il mercato sia il luogo di piena espressione della libertà economica e quindi anche della diversità delle forme d’impresa. Non esiste solo l’impresa capitalistica quotata in Borsa: esiste anche la cooperazione. E continua a non essermi chiaro perché le grandi cooperative creditizie debbano rinunciare alla loro consolidata libertà di stare sul mercato come Popolari per assimilarsi a una sorta di modello unico. Per di più con la crisi bancaria deflagrata nel 2008 la fiducia granitica in questo “modello unico” ha cominciato a sgretolarsi.
I supporter della riforma accelerata sostengono che le Popolari quotate in Borsa siano comunque un controsenso…
È una delle molte cose non vere che si ascoltano in questi giorni a proposito delle Popolari italiane. Quando le Popolari hanno chiesto capitali sul mercato, la risposta è sempre stata del tutto positiva: dal 2008 in poi la categoria ha raccolto in Borsa e presso il suo azionariato cooperativo 9 miliardi, sempre senza problemi. Personalmente ho seguito molti roadshow in piazze internazionali e non ho mai riscontrato dubbi o remore presso i grandi investitori su quali fossero le specificità dei titoli che avrebbero acquistato. Le Popolari italiane sono sempre state chiare nel presentare la propria governance, la propria identità di banche legate a territori e comunità imprenditoriali. Ripeto: la libertà del mercato è anche l’essere piattaforma e vetrina di una pluralità di esperienze d’impresa e di opportunità d’investimento.
Un altro “capo d’accusa” posto alla base del bliz è il ruolo delle Popolari nel razionamento del credito che ha afflitto l’economia italiana negli ultimi tre anni.
Anche quest’affermazione è lontanissima dalla realtà. Le Popolari non hanno erogato meno credito alle imprese rispetto alle Spa in questi anni caratterizzati da recessione e spread alti. È vero invece che la trasformazione forzata di una serie di Popolari in Spa ha tra i suoi effetti potenziali il credit crunch: una banca Spa è soggetta a maggiori pressioni sulla redditività e quindi è portata a orientare la propria attività più sui mercati che sugli impieghi, meno profittevoli. Ma non so se una Popolare italiana trasformata in Spa a tappe forzate potrà continuare a decidere in autonomia il proprio “asset and liability management”.
Vuol dire che il rischio di scalata, con il passaggio alla Spa, è reale e immediato?
Lo dice la teoria economica e l’esperienza di mercato. Se un’azienda quotata contiene valori inespressi e diventa contendibile è altamente probabile che divenga rapidamente oggetto di tentativi di acquisizione. Sarebbe il caso di numerose Popolari italiane: aziende bancarie ancora strutturate e radicate in territori ricchi di risparmio familiare e di imprenditoria dinamica. La crisi finanziaria globale e la recessione europea hanno lasciato il segno, ma non hanno distrutto la forza intrinseca delle Popolari, al centro dei loro distretti. Mi sfugge davvero perchè dovremmo esporre questi nostri “asset-Paese” a un rischio di esproprio da parte di sistemi bancari che non vantano numeri migliori dei nostri, anzi. Certo, spiace che in questa situazione le Popolari si ritrovino anche un po’ per responsabilità di classi dirigenti che non hanno capito la necessità di accelerare processi di autoriforma.
Già in sede di esame parlamentare, alcune proposte di emendamento al decreto guardano alla fissazione di un limite di posesso azionario votante, al 3 o al 5 per cento.
Non mi stupisce che i parlamentari stiano cogliendo tutte le questioni-chiave improvvisamente aperte dal decreto del governo. Il tetto al possesso azionario votante sarebbe effettivamente una prima misura importante per non abbandonare al loro destino le Popolari-Spa, con i loro soci, i loro dipendenti, i loro clienti. È ragionevole dare agli investitori istituzionali uno spazio maggiore ma circoscritto. Era del resto un percorso già battuto dai primi passi di autoriforma statutarie di alcune grandi Popolari: e sarebbe stato probabilmente utile la categoria accelerasse in questa direzione, prima che il governo incalzasse i suoi ritardi. Detto questo, tutti i soci delle Popolari hanno diritto a una rivisitazione del loro ruolo: non solo i grandi fondi internazionali, ma anche i soci-cooperatori tradizionali, che queste Popolari che hanno creato e fatto crescere.
Cosa c’è oltre il voto capitario? Com’è possibile tutelare la partecipazione del “piccolo socio” in una Popolare-Spa?
Premessa: conta più un fondo che compra l’1% di una Popolare in chiave speculativa o mille soci che assieme detengono la stessa quota con ottica di lungo periodo? Personalmente credo che la seconda situazione meriti attenzione: anche alla luce della recente normativa sul voto multiplo. A un soggetto organizzato – associazione o fondazione – che rispondesse ai requisiti di azionista significativo e stabile di una Popolare-Spa potrebbe essere assegnato un diritto di voto adeguato. E questo sarebbe decisivo soprattutto nella prospettiva della nascita di Popolari più grandi delle attuali.
È convinto che per le Popolari si stia aprendo una fase di aggregazioni?
Credo che questa fase fosse matura anche indipendentemente dalla pressione esercitata dal decreto e forse qualche operazione avrebbe potuto essere messa in cantiere anche prima che governo, Bankitalia e Bce lanciassero il loro ultimatum. Però sarebbe un errore, ora, imporre fusioni o acquisizioni “per decreto”: con tempi burocratici e non invece con serie valutazioni industriali. La discussione parlamentare sul decreto potrebbe saggiamente allargare il termine ultimativo dei 18 mesi per la trasformazione in Spa in un vero e proprio periodo di transizione, in cui le Popolari sono spinte sì a cambiare, ma in direzione del riordino interno del comparto e al riparo dalle scalate ostili dall’estero. Sul terreno delle fusioni, comunque, le Popolari non ripartono da zero. In Borsa analisti e investitori già lavorano attorno a ipotesi e indiscrezioni. Per parte mia vale ancor oggi un’esperienza personale. Facevo parte del consiglio della Popolare di Milano quando fu esaminato un progetto di aggregazione con la Popolare dell’Emilia Romagna, cui ero molto favorevole. Il progetto era fondato su analisi industriali, non su valutazioni di Borsa: fu discusso a lungo e accantonato con minimo margine di voto nel board. Ribadisco: le Popolari italiane non devono costruire da zero le loro riaggregazioni per linee interne.
(Antonio Quaglio)