L’Italia raggiungerà una crescita del 2% nel lungo termine. Lo ha detto il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, nel corso della sua visita a Singapore, dove ha tenuto una public lecture alla Lee Kuan Yew School of Public Policy. Su Twitter il ministro ha commentato: “Riforme strutturali per eliminare ostacoli alla crescita. Una visione da condividere, anche a Singapore”. In un secondo tweet ha quindi aggiunto: “Raccontare all’Oriente l’Italia di oggi oltre i luoghi comuni valorizza cultura ed economia del nostro Paese”. Il tutto mentre il Governo si appresta a varare in maniera definitiva il Documento di economia e finanza. Ne abbiamo parlato con Guido Gentili, editorialista ed ex direttore de Il Sole 24 Ore.



Per Padoan, l’Italia avrà una crescita del 2% nel lungo termine. Possiamo davvero credergli?

Il 2% nel lungo termine vuol dire tutto e niente. Dalle prime cifre emerse sul Def, sappiamo che quest’anno la crescita sarà dello 0,7% nel 2015 e dell’1,4% nel 2016. Il governo auspica un cammino di crescita che ci porti verso il 2%. Vista l’esperienza del passato sarei però molto prudente. Partiamo da uno 0,7% che è ben al di sotto della media europea e della stessa Germania che è all’1,8%. Quello del ministro Padoan, che non fornisce nessuna tempistica, è quindi più che altro un esercizio dialettico.



Sempre per Padoan l’Ue non ci farà problemi sul Def, grazie a un insieme di fattori favorevoli tra cui i minori interessi sul debito. Quanto è solida questa garanzia?

Già nel 2014 l’Italia ha pagato 2 miliardi di minori oneri sul debito rispetto al 2013. Questa tendenza ha subito un’accelerazione sul finire del 2014 ed è continuata nei primi tre mesi del 2015 con l’entrata in funzione della nuova politica monetaria della Bce. Ci sarà quindi sicuramente una corposa riduzione della spesa per interessi. In autunno la nota di variazione al bilancio ci fornirà comunque un quadro più chiaro.



Quale giudizio si aspetta che arrivi da Bruxelles nei confronti della nostra finanza pubblica?

Entro il 30 aprile il Def e il Piano nazionale di riforme (Pnr) saranno trasmessi a Bruxelles, costituendo la piattaforma sulla quale si articolerà il negoziato tra Italia e Ue. L’Italia conta su una rinnovata credibilità politica, come si è visto in febbraio quando i partner hanno dato atto al governo di essersi mosso nella direzione giusta. Anche se sarà ben più difficile quando si inizierà a discutere degli effettivi margini di flessibilità, in quanto il nostro Pil non prevede certo una crescita vertiginosa.

Su quali fattori di forza può contare l’Italia?

Il governo chiederà a Bruxelles dei margini di flessibilità in cambio del crono programma di riforme che Renzi ha messo in campo. Un fatto che sommato alla diminuzione degli oneri per il debito apre effettivamente degli spazi. Si profila inoltre la volontà del governo di rinviare il pareggio di bilancio al 2018 e di tenere il deficit più alto del previsto.

 

Renzi ha detto che nel Def non ci saranno né tagli, né aumenti delle tasse. Siamo sicuri che non ci saranno davvero?

Quando avremo in mano la versione definitiva del Def, verificheremo che non ci siano né tagli né tasse. Al momento i numeri sulle tabelle della bozza indicano un aumento della pressione fiscale in proporzione al Pil. Si parla di dieci miliardi di spending review. Bisognerà vedere se si concretizzerà in un taglio delle agevolazioni fiscali, in tagli lineari della spesa o nella riduzione dei trasferimenti ai Comuni. La manovra insomma è ancora tutta da scrivere, in quanto il Def è solo un primo passaggio in attesa della nota di variazione al bilancio che aggiornerà l’andamento dell’economia.

 

Secondo lei, come sarà la versione finale del Def?

Nei prossimi giorni verificheremo un quadro del Def a maglie larghe, rispetto a cui ci sarà molto da discutere sia sulla spending review che sulla riduzione delle tasse. Il governo continua a sostenere che il bonus da 80 euro è stato una riduzione delle tasse. A essere dirimente sarà lo “sminamento” delle clausole di salvaguardia da 16 miliardi, che richiederà l’individuazione di misure alternative. Fino a poco tempo fa si diceva che il contributo delle privatizzazioni era pari allo 0,7%, mentre oggi siamo scesi allo 0,4%. È un quadro che per il momento si presenta più con delle incognite che con delle certezze.

 

(Pietro Vernizzi)