“Non chiamatelo tesoretto”, ha detto Matteo Renzi. Ma non chiamiamolo nemmeno “qualcosa da parte”, come lo definisce il presidente del Consiglio. Perché quel miliardo e mezzo in più non è l’effetto di un aumento delle entrate, né una conseguenza diretta del Quantitative easing della Bce che consente di ridurre il peso degli interessi sul debito. No, è il frutto puro e semplice di un aumento del disavanzo pubblico dal 2,5% tendenziale al 2,6% scritto nel Def. La chiave di tutto è in quesito gioco tra deficit “tendenziale” e “programmatico”. Insomma, esattamente come lo scorso anno, anche se in misura più modesta, il cuore della politica di bilancio delineata dal Documento di economia e finanza è il deficit spending. E, di nuovo come allora, la condizione è il buon esito della trattativa con l’Unione europea.



C’erano alternative? Un anno fa no, perché si trattava di uscire dalla lunga recessione, questa volta è diverso perché la ripresa c’è, ma è debole, debolissima e l’obiettivo principale dovrebbe essere rafforzarla. Non sovrastimando le previsioni, come hanno chiesto alcuni ministri, ma con scelte più coraggiose che riducano la spesa aprendo spazi per una riduzione delle tasse. Invece, al di là delle dichiarazioni, questa manovra non è all’ordine del giorno.



Il governo ha elencato otto voci di spesa pubblica sulle quali intervenire. Ma sono tutte generiche, anzi aleatorie. Prendiamo gli acquisti di beni e servizi: chiunque abbia messo mano a proposte di revisione della spesa, da Giarda a Cottarelli, ha spiegato che è il ventre molle della Pubblica amministrazione, dove s’annida il clientelismo se non proprio il malaffare. Ebbene il governo parla di rafforzare la Consip (la centrale di acquisti) e risparmiare 1,5 miliardi. Noccioline (a parte il fatto che di rafforzare la Consip si sente parlare da quando è nata e non è mai accaduto).

Quanto ai ministeri, saranno passati “al setaccio” i 10 mila capitoli spesa. Ricavi? E chi lo sa, invece del setaccio ci voleva l’ascia. Sugli immobili pubblici si parla di un solo palazzo per tutti gli uffici in ogni città, anche questo lo abbiamo sentito da almeno un decennio. Le municipalizzate un anno fa dovevano essere messe sul mercato, ristrutturate, accorpate: l’ambizioso piano s’è ridotto a una ben più modesta razionalizzazione di rifiuti e trasporti. Per la sanità, si parla di ridurre le poltrone nelle Asl (un’altra tiritera che non è mai diventata realtà).



Le agevolazioni alle imprese che secondo il piano Giavazzi potevano fruttare risparmi per 10 miliardi, saranno oggetto di una “ricognizione”. Riducendo le detrazioni fiscali si potrebbe ricavare un miliardo e mezzo, ma già Giulio Tremonti le aveva messe nel mirino cinque anni fa e non se ne è mai fatto nulla.

Gli otto interventi sulla spesa sono dunque otto punti interrogativi. Dovrebbero rastrellare 10 miliardi (molto meno di quel che era previsto nella spending review di Cottarelli) per evitare un aggravio delle imposte l’anno prossimo con la clausola di salvaguardia che farebbe scattare l’aumento dell’Iva. Gli altri 6 miliardi provengono, indovinate un po’, da una nuova trattativa con Bruxelles che dovrebbe consentire un aumento del deficit strutturale (cioè al netto della congiuntura) allo 0,4% nel 2016, rinviando ancora il pareggio del bilancio. Il governo conta di ottenere il via libera grazie al fatto che porterà sul tavolo dell’Ue la realizzazione delle riforme annunciate un anno in base alle quali aveva ottenuto una lettera di credito.

Gli economisti di palazzo Chigi ribattono che tagliare di più le spese avrebbe comunque un impatto negativo sulla crescita. È vero, se non è accompagnato da una riduzione della pressione che fiscale che ha una ricaduta sulla domanda interna molto più forte e diretta rispetto alla spesa pubblica. Ma nulla di tutto ciò è all’orizzonte.

Le imposte, come si è visto, non si tratta di ridurle, bensì di evitare un loro aumento (16 miliardi), inevitabile se non si resta entro i limiti di bilancio stabiliti dall’Unione europea. Renzi conta di utilizzare il “tesoretto” per estendere il bonus di 80 euro o per un sostegno alle fasce più povere della popolazione. Obiettivi entrambi necessari che non dovrebbero essere in contrapposizione. Ma siamo alle briciole. Del resto, a ben vedere, l’intera politica economica resta marginalistica e si gioca su margini assai ridotti, appena lo 0,1%: più 0,1% di crescita e più 0,1% di deficit. Un’operazione da un decimale di punto che non si può certo chiamare né lungimirante, né coraggiosa.