Il Documento di economia e finanza appena reso pubblico dal governo, che dovrebbe delineare le linee guida dell’azione economico governativa per i prossimi tre anni, è degno di rilevanza non tanto in sé, quanto per il contesto politico istituzionale in cui si colloca. In primo luogo, cambiano i piloti di due cabine di regia essenziali alla luce del documento medesimo: il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Delrio lascia l’incarico con il fido Bonaretti e va al ministero dei Lavori pubblici dopo la tempesta scatenata sul ministro Lupi, costretto alle dimissioni pur senza essere indagato dalla magistratura; il vecchio allievo di Giorgio Rodano, ed ex collaboratore di Vincenzo Visco, De Vincenti assume quell’incarico proprio quando si apre un contenzioso non di poco conto con la Ragioneria Generale dello Stato.
Mi riferisco alla denuncia de Il Sole 24 Ore circa il venir meno degli sgravi fiscali per le imprese che avessero assunto o trasformato a tempo indeterminato contratti invece a tempo parziale. L’aumento dei contributi alle imprese doveva servire a coprire l’aumento dei rapporti di lavoro stabili rispetto a quelli precari. Tutto ciò è stato imposto dalla Ragioneria Generale dello Stato con una mossa che disvela come sia ancora preclara l’incapacità governativa di portare sotto il dominio della politica una struttura tecnica invece che dipende dalle burocrazie europee e che quindi continua a essere refrattaria a ogni nuova politica. L’arrivo di De Vincenti non fa che rafforzare questa tecnocrazia eterodiretta e quindi va letto non tanto come una rottura del cosiddetto cerchio magico renziano, ma come un improvvido cedimento di codesto governo ai voleri eurocratici.
La nomina di Delrio, inoltre, va letta come una sorta di resa dinanzi allo sforzo politico che è necessario esprimere per continuare nella realizzazione delle grandi opere infrastrutturali, combattendo nel mentre la corruzione. I propositi del nuovo ministro son di tutt’altro genere. L’elenco delle 55 grandi opere previste da Maurizio Lupi è stato ridotto a un elenco di 22 grandi opere con la giustificazione che solo le piccole opere utili sono atte a sventare qualsivoglia corruttela. Nel mentre il collo dell’autostrada che collega Palermo con Catania spacca la Sicilia in due e disvela in modo evidente, se ce ne fosse ancora bisogno, quanta necessità invece abbiamo di grandi opere per rilanciare l’economia del Paese elevandone la cosiddetta total factory productivity, ovvero la produttività totale dei fattori del sistema-Paese che si raggiunge solo abbassando i costi di transazione e di controllo.
Un quadro mosso, quindi, e incerto. Così come incerto è il rapporto tra centro e periferia in merito all’esazione fiscale. Si continua a non capire nulla delle tasse comunali con susseguirsi di polemiche a cui non si riesce a porre freno. Quello che conta è che la ripresa della cosiddetta spending review affidata al principe dei consulenti economici governativi non si è ancora tradotta in atti concreti, nonostante il lungo lavoro di Cottarelli, che smorzino la tensione sociale, mentre invece gli ex dipendenti delle province non sanno dove, quando e come saranno ricollocati e una serie di omicidi nel Palazzo di Giustizia di Milano disvelano, più che la solitudine degli operatori di giustizia, come si è detto sui giornali e da parte di questi ultimi, il disfacimento anche organizzativo dello Stato.
In questa luce anche la coppia Alesina-Giavazzi riesce quasi inspiegabilmente a dire cose sensate sottolineando il fatto che, visti i vincoli eurocratici che non si vogliono superare, risulta difficile mettere insieme l’abbassamento del carico fiscale, sbandierato dal governo, con una così scarsa riduzione della spesa pubblica corrente, anch’essa sbandierata dal governo medesimo. Cosicché diventa difficile capire da dove si possa trarre, se non dalle viscere del pozzo della demagogia, il cosiddetto tesoretto da un miliardo e mezzo di euro che ci è consentito utilizzare dalle forche caudine europee, non sforando i noti limiti, per interventi di sollievo del disagio sociale, dai pensionati, agli incapienti, a tutti coloro che giustamente si sentirono offesi per essere stati esclusi dai famosi 80 euro. Su di essi, poi, si dovrebbe finire il balletto tra governo e Istat con la polemica in corso se gli 80 euro vadano considerati come detrazioni fiscali oppure come spese per il welfare, con le conseguenze diverse che ciò ha sulla contabilità generale dello Stato.
Ma che dire poi dei cosiddetti investimenti anticiclici? Del segmento italiano del piano Juncker non c’è ancora traccia e, soprattutto, quando le tracce si fanno sul terreno esse sono confuse e indistinguibili. Mi riferisco, per esempio, al problema della banda larga, con la polemica per esempio tra Telecom e la Cassa depositi e prestiti che è scaturita in occasione del problema MetroWeb, con una confusione programmatica e un attacco proditorio alla stessa proprietà privata, condotta in forme oscure e inestricabili da un organismo istituzionale delicatissimo com’è appunto la Cassa depositi e prestiti, sulla cui governance ancora non si fa chiarezza, con conseguenze che appaiono gravissime in merito alla difesa di asset strategici per la stessa tenuta istituzionale della nazione.
Sempre per continuare in questa analisi di contesto, è in questa luce che io vedo l’accendersi delle polemiche sul Presidente di Finmeccanica De Gennaro. È vero che gli apoti sono pochi, ossia è vero che quelli che Prezzolini chiamava “coloro che non la bevono” sono pochi, che su una questione così delicata quale è quella dell’onorabilità di un servitore dello Stato come De Gennaro è impossibile che il Presidente di un partito esprima un’opinione senza averla concordata prima con il Segretario di quel partito. Una cosa simile non succede neanche nel Pd e quindi quella vicenda, più che sotto l’ombra cinese della tortura e di una sentenza della Corte europea quattordici anni dopo, dopo tutta una serie di sentenze che hanno assolto De Gennaro medesimo, quell’intemerato attacco altro non è stato che un esercizio diretto a sondare il sistema di resistenze interne, e soprattutto internazionali, in merito a un eventuale spossessamento della nostra più importante industria militare per consegnarla, sulla scorta di quanto è già accaduto con le reti, ad altre potenze straniere.
Non escludo che anche una simile interpretazione si possa dare in merito al proditorio attacco del governo contro la natura cooperativa delle Banche popolari, esponendole in tal modo al pericolo di ogni forma di saccheggio internazionale.
Il recente e pericolosissimo dissidio tra Usa e Uk in merito alla famosa Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture, che disvela come il Regno Unito si allontani sempre più dalla strategia internazionale nordamericana, quel dissidio veramente drammatico, di cui non parla nessuno, non può che ripercuotersi anche sulle strategie ancora inespresse delle nostre privatizzazioni. Su di esse occorrerebbe esprimersi in un compiuto documento programmatico di politica industriale e di politica internazionale, invece che annunciare percentuali di eventuali vendite che volta a volta variano generando non pochi turbamenti borsistici su cui varrebbe la pena di accendere un faro (anche qui la vicenda delle Banche Popolari docet).
Insomma, non si può dire che la strategia del governo indichi una via dalla ripresa economica che altro non sia che un abbandonarsi alla politica monetaria della Bce e all’andamento dei prezzi delle commodities, prime fra tutte quelle del petrolio e del gas. Occorrerebbe fare di più. Occorrerebbe attorno ai passi avanti, che pur fra mille contraddizioni il Jobs Act contiene, dar vita a una politica industriale ed economica e a una grande strategia di riforma del patto europeo nel suo complesso, riscrivendone quelle regole che sempre più si disvelano come soffocanti vincoli che rischiano di farci sprofondare nella stagnazione secolare.