La vicenda Whirlpool si presta a molteplici osservazioni che vanno dalla natura delle nostre relazioni sindacali, dal loro modello oggi prevalente, sino al tipo di partecipazione politica che si vorrebbe inverare nel rapporto tra la cuspide della circolazione delle classi politiche e i cittadini e i lavoratori.

La vicenda nelle sue linee generali è purtroppo nota. La crisi della Indesit si trascina da anni, da decenni, e segna anche in questo caso la frattura di un’unità famigliare che dopo essere divenuta unità imprenditoriale non riesce più a conservare tale unità scindendo proprietà e proprietà e controllo e controllo, ossia producendo una divisione sia tra gli azionisti che tra il management.



I riflessi sono noti. Perdita di potere sul mercato, perdita di influenza sul territorio e nei confronti della classe politica che avvince alcuni esponenti della saga famigliare e li cattura nei suoi bassi primi cicli di circolazione, decadenza, infine, proprietaria. Arriva il cavaliere bianco della Whirlpool. È una multinazionale affermata e ben diretta, con una visione di lungo periodo e la consapevolezza di affrontare una sfida che non è solo economica ma anche culturale. 



L’industria del bianco, ossia degli elettrodomestici, del resto è una delle più difficili al mondo. L’innovazione tecnologica ha sconvolto il modello di costruzione del plusvalore grazie a tecnologie distruttive del passato e a delocalizzazioni da manuale sul fronte del costo del lavoro. Nel mentre la competizione si spostava con una meccanica per aggiunta di apparecchiature elettroniche sul prodotto finale offerto ai consumatori in una sorta di competizione che più che sulla solidità ormai punta sulla lievità dell’uso, sul risparmino energetico, ecc., ossia su tutti i valori green che oggi sono di gran moda in una narrazione che da sostenibile si fa puramente capitalistica nel senso di sostenere la domanda con un’offerta che diviene sempre più sofisticata. E Whirlpool è uno dei gruppi multinazionali più avanzati in questo campo.



Il sindacato italiano va detto – così com’è avvenuto sul fronte del lavoro nell’industria tessile – ha nell’ultimo ventennio sperimentato una grandissima capacità di adattamento e di realismo, elaborando strategie di contenimento della disoccupazione grazie alla prevalenza di una logica di compartecipazione, di cogestione delle ristrutturazioni che neppure le sparate ideologiche più potenti si sono rilevate in grado di smontare grazie alla sagacia, all’ intelligenza, alla volontà di lotta realistica tanto dei lavoratori quanto dei loro dirigenti.

Un caso da manuale che sfata tutta la vulgata corrente sul sindacato italiano diviso e anomalo grazie a quella controfigura da avanspettacolo che gira i palcoscenici vestendo gli abiti di Landini e che getta discredito sul sindacato serio e veramente fedele ai lavoratori, a iniziare dalla Cisl… per finire con essa e la sparuta minoranza riformista della Cgil.

La questione è divenuta scottante da quando la multinazionale, dopo aver dichiarato al Premier Renzi che avrebbe effettuato l’acquisizione del gruppo conservando i livelli occupazionali sino al 2018, ha invece dapprima annunciato la volontà di mutare questo orientamento procedendo alla dichiarazione di 400 esuberi concentrati nello stabilimento di Caserta e nel centro di ricerca del Piemonte, a None. Sono passati due anni da quelle promesse e ora la crisi e le difficoltà del mercato hanno indotto la Whirlpool a riconfigurare un piano di ristrutturazione che ha comportato, anzi comporta ormai, 1.335 esuberi e la chiusura di due siti: a Carinaro appunto (provincia di Caserta) e a None. E questo mentre l’azienda annuncia nuovi investimenti.

La ragione di questo comportamento non è la schizofrenia, ma la trasformazione industriale e manifatturiera in corso che, soprattutto nel settore, ha conseguenze immediate con il mutamento della costruzione del prodotto grazie alla meccanica per aggiunta e non per estrusione (volgarmente parlando alla buona mi riferisco alle stampanti 3D, così ci capiamo tutti), che disuniscono il ruolo non solo dei lavoratori dequalificati, ma anche e soprattutto di quelli specializzati e qualificati, tanto più se a questa meccanica per addizione si aggiunge la robotica.

I sindacati che avevano richiesto un tavolo negoziale – ossia Cisl, Uil e Ugl (la Cgil non partecipava antagonisticamente) – ieri lo hanno abbandonato chiedendo l’intervento del governo. Il quale si trova ora in gravi ambasce. Pacta sunt servanda? Può essere, ma in questo campo di patti siffatti è meglio non stringerli, non esiste una legislazione che comprenda nel diritto privato il rispetto di una promessa tra azienda, privata appunto, e un’entità pubblica come il governo. Non sta né in cielo, né in terra. 

Generalmente tutto si fonda, invece, sulla moral suasion, sull’autorevolezza degli interlocutori e naturalmente anche sulla capacità di lotta del sindacato. In questo caso lo sciopero non solo non è sufficiente, ma realizza ciò che vuole lì azienda: porta i lavoratori fuori dalla fabbrica e lì rischia di farli rimanere. 

Insomma, i nodi vengono al pettine. Solo una politica di attrattività verso la nazione, di formazione dei lavoratori e una negoziazione sindacale fondata sul sindacato associativo e partecipativo che chiama alla lotta i lavoratori solo in casi veramente estremi può, in una situazione sociale difficilissima come quella odierna, portare i lavoratori e con essi il Paese tutto alla vittoria.

Sì, alla vittoria perché il lavoro è una vittoria non di una parte della nazione, ma della nazione tutta ed è questo l’ obbiettivo del governo. Ma per far questo occorre un lavoro lungo faticoso di contatto con gli attori in campo e di capacità politica negoziale. Indebolisce codesta azione anche nei confronti della controparte dei lavoratori trovate come quella del Presidente del Consiglio che recentemente, in quel di Caserta, ha incontrato i lavoratori separati, divisi, da soli, senza incontrare contestualmente anche le rappresentanze sindacali.

Al di là di ogni ideologia il sindacato rimane un fondamento del pluralismo della poliarchia e la poliarchia democratica non sopporta il rapporto cesaristico diretto tra capo e popolo. Soprattutto se il popolo è sofferente: nella sua solitudine non deve credere negli uomini della provvidenza, pena la morte stessa del pluralismo democratico: per questo esiste il sindacato come associazione, fondamento del pluralismo democratico, anche in ogni crisi congiunturale o di lungo periodo.