Altro giro, altro regalo. La giostra quotidiana dei dati macro sembra non conoscere sosta, esattamente come i mercati che ieri e l’altro ieri hanno di fatto ignorato sia i controlli di capitale imposti dal governo greco, sia l’ormai quasi certo default di Atene che la prima bancarotta legata al ramo immobiliare cinese, seguita da qualcosa di ancora peggiore, visto che avendo saltato il pagamento di un coupon, la sussidiaria della China South Industries Group ha dato vita al primo default da parte di un’azienda controllata dallo Stato! Di più, forte del taglio di un punto percentuale delle ratio di riserva delle banche (a detta di qualcuno un atto preparatorio a una sorta di iniezione di liquidità in stile asta Ltro da parte della Banca del popolo), l’altra mattina il mercato equities del Dragone è tornato in orbita, con Shanghai ai massimi, mentre addirittura il Nikkei giapponese ha sfondato quota 20mila punti sull’aspettativa di più Qe, come vi ho mostrato ieri. Insomma, tutto bene. 



Come d’altronde sembra confermarci il primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra l’andamento ciclico del prezzo del legname da costruzioni Usa nelle sue varie fasi. Avendo toccato l’altro giorno il minimo a tre mesi, ora la divergenza tra performance dei costruttori e costo del legname – la commodity che meglio rispecchia l’andamento dell’economia reale – puzza lontano un miglio di déjà vu. Quale? I soldi della Fed danno vita a mal-investment di massa, le costruzioni partono, l’offerta sale e incontra la domanda e i prezzi del lumber crescono. Peccato che questa volta quegli aumenti di prezzo abbiano avuto vita brevissima, perché il mercato ha subito prezzato il fatto che l’aumento dell’offerta non riflette un reale sviluppo della domanda. Terzo step, il prezzo del legname collassa a causa del mis-match tra sovra-offerta e sotto-domanda, lasciando i costruttori alle prese con mutui onerosi da ripagare e obbligazioni a rischio default. Quarto punto, anche il boom falso dell’homebuilding si rivela tale, offrendo una nuova prova della non-ripresa Usa. 



Ma c’è di più, guardate il secondo grafico, ci mostra come l’indice Empire Fed per la manifattura ad aprile abbia segnato un -1,2 contro il +6,9 di marzo e attese per un rimbalzo post-inverno a 7,17: addirittura, il dato dei nuovi ordinativi è sceso al minimo del gennaio 2013. Tutta salute! E che dire del terzo grafico, in base al quale scopriamo che la produzione industriale Usa è calata del doppio delle attese, ovvero -0,6% contro -0,3%, il dato peggiore da agosto 2012, il quarto mese di fila di aspettative non rispettate e con il dato legato alle utilities che ha visto l’output schiantarsi a -5,9%, la peggiore lettura da nove (9!) anni a questa parte? 



Insomma, l’America scoppia di salute economica. E comincio a non essere più il solo a denunciare il fatto che mercati ed economia reale vivano su pianeti diversi, visto che ieri l’economista di Citigroup, William Lee, ha detto chiaro e tondo che «la diagnosi in base alla quale l’America era guarita dal trauma del 2008 è stata esagerata o non corretta. Solo così possiamo spiegare il perché tutte le aspettative siano andate deluse rispetto all’outlook di crescita, smentito da un flusso continuo di dati al ribasso apparentemente sorprendenti». D’altronde, i dati parlano chiaro: il surplus commerciale ha fatto salire il dato di crescita del GDPNow della Fed di Atlanta da 0,0% a +0,1% per il primo trimestre di quest’anno, mentre il sondaggio di Cnbc parla di +1,2% e quello di FactSet dell’1,6%. Dati molto differenti, ma temo che il primo sarà il più vicino alla realtà, anche se in area finale +0,8%, anche grazie alle solite revisioni. 

Resta il fatto che solo nell’ultimo trimestre del 2014, forti del dato falsato del +5% di Pil, le attese di tutti per i primi tre mesi di quest’anno fossero vicine al +3%: nessuno vede quelle percentuale più nemmeno con il binocolo. Anzi, no. Forse mi sbaglio ed è giusto, per correttezza professionale dar conto anche della voci contrarie alle mie convinzioni. Stando a un sondaggio condotto da Cnn e Orc tra il 16 e il 19 aprile, infatti, per il 52% degli americani interpellati lo stato dell’economia è “buono”, di fatto una conferma del Bloomberg Politics di inizio mese riguardo le prospettive future del Paese e del Consumer Sentiment Index pubblicato lo scorso venerdì dall’università del Michigan. Insomma, erano anni che i cittadini statunitensi non erano così positivi rispetto all’economia nazionale: sapete esattamente da quanti? Otto, infatti l’ultima volta che si superò quota 50% di ottimisti era il settembre 2007, in piena bolla subprime, quando i mercati tiravano come cavalli impazziti. Un anno dopo, puff: déjà vu un’altra volta? 

Sicuramente la conferma indiretta che siamo nel pieno di una bolla azionaria. E di corsi e ricorsi storici sono pieni gli schermi delle sale trading in questi giorni, visto che come ci mostra il primo grafico a fondo pagina, il pattern dell’indice della fiducia delle aziende tedesche Zew in calo per la prima volta da sei mesi correlato al Dax di Francoforte dovrebbe far suonare qualche campanello d’allarme. Ovvero, abbiamo appena superato – un’altra volta dopo il 2008 – il picco dell’esuberanza? Ma tranquilli, Mario Draghi sta lavorando per noi. Come? Ce lo mostra il secondo grafico, dal quale desumiamo che a oggi il 53% di tutti i bond governativi mondiali hanno rendimento dell’1% o più basso; che 5,3 triliardi di bond governativi a livello globale hanno rendimento negativo, il 60% dei quali sono europei; che gli assets nei bilanci della Banche centrali superano i 22 triliardi di dollari, pari al Pil di Giappone e Usa combinati. 

Bene, sapete chi ha fatto capolino ieri dopo mesi di silenzio? Bill Gross, il guru dei bond, a detta del quale «andare ribassisti sul Bund è lo short di una vita intera, ancora meglio che la sterlina nel 1992. È solo una questione di quando ed è un trade che non costa nulla nel breve termine, avendo rendimento zero ma con il potenziale di un +10-15% di profitto nell’arco di uno, massimo due anni». E calcolate che il Janus Global Fund di Gross, 1,5 miliardi di dollari in gestione, ha generato profitti del 2,05% da inizio anno, contro la media dello 0,16% del benchmark sul reddito fisso di Barclays, quindi non è proprio uno sprovveduto (sottolineo che questa è cronaca, NON un consiglio di investimento). 

E a confermare la sua tesi, ovvero il risveglio della speculazione aggressiva, ci ha pensato anche un altro pezzo da novanta degli hedge fund, Doug Kass, capo del Seabreeze Partners Management, a detta del quale «rendimenti quasi a zero o negativi nell’eurozona rappresentano la bolla di tutte le bolle di investimento, rende quasi ridicola la bolla del Nasdaq di 16 anni fa. Segnatevi le mie parole, farò una fortuna andando al ribasso su quei bond a un certo punto e quel punto potrebbe essere più prima che dopo». Insomma, i cosiddetti “pescecani” (e un giorno dovremo fare anche un bel ragionamento sul ruolo della speculazione in finanza, lontano dai luoghi comuni alla Beppe Grillo) amano il Qe della Bce. Perché? Chi pensate che abbia creato le condizioni per il loro short del secolo? 

Per capirci, quell’attacco ribassista partirà – a mio modo di vedere – quando il Bund toccherà rendimento al -0,20%, esattamente il tasso di deposito della Bce: guardate il terzo grafico, è già sulla buona strada. Il problema è sempre lo stesso: l’Europa non ha abbastanza collaterale eligibile per la monetizzazione da parte della Bce. O, quantomeno, non sufficiente affinché la Bce continui i propri acquisti fino a settembre 2016, come ribadito la scorsa settimana da Mario Draghi. 

 

 

 

Tanto più che le redenzioni di debito e i pagamenti di coupon sono quantificabili in circa 30 miliardi di euro in più del valore delle vendite di debito e questo significa che sia la Bce che le varie Banche centrali potrebbero dover lottare e non poco per comprare alcuni dei bonds di cui hanno bisogno per mantenere la scadenza degli acquisti delle banche in linea con quella media del debito eligibile di ogni nazione. Ad esempio, questo mese i mercati con il più alto inflows netto sono Spagna, Germania e Olanda. Qual è il rischio? Che gli acquisti di Bce e Banche centrali vadano in competizione con i flussi di investitori che vogliono reinvestire denaro in bond governativi europei, di fatto massimizzando le distorsioni nel mercato, ciò che statutariamente il Qe non dovrebbe fare. Insomma, potrebbe non mancare molto al giorno in cui gli attori del mercato privato decidano di operare frontrun sugli acquisti della Bce, costringendo quest’ultima a comprare Bund dal mercato privato e offrendo a chi detiene quella carta la possibilità di chiedere qualunque prezzo per venderla, anche oltre il floor statutario della Bce del -0,20% di rendimento. 

Il problema poi non è solo legato al Bund e al superamento del Rubicone rappresentato dallo 0,0% di rendimento, ma anche cosa ci aspetta dopo maggio e giugno, mesi in cui – ad esempio – in Italia e Francia le vendite di debito supereranno il servizio del debito e quindi daranno fiato agli acquisti centralizzati. In luglio, infatti, 69 miliardi netti di debito torneranno sul mercato e dal 9 marzo a oggi la Bce ha comprato 73,3 miliardi di bond del settore pubblico: se, come accaduto per le dinamiche del Bund, gli acquisti della Bce risulteranno non neutrali alle dinamiche di mercato, allora gli investitori potrebbero prendere al volo l’opportunità di speculare su ciò che l’Eurotower e le Banche centrali compreranno ogni dato mese, visto che la prospettiva è quella di un ritorno alla neutralità con la fine del programma a settembre 2016. 

D’altronde, quanto sta accadendo è il giusto epilogo di una situazione di follia finanziaria che ho denunciato fin dall’inizio, nel caso specifico dal 10 aprile dello scorso anno, quando un trionfante governo greco – applaudito e riempito di pacche sulla spalla dalle stesse Bce e Troika che oggi vogliono tagliare i finanziamenti Ela alle banche – tornava sul mercato con un bond a 5 anni con rendimento più basso dal 2009 che ricevette domanda otto volte superiore all’offerta, per capirci un parco buoi superiore a quello che si scannava per il collocamento di Facebook a Wall Street. La grande stampa gridò al miracolo, l’eurozona era salva, la Grecia poteva ripartire e seguire l’esempio fulgido di Irlanda e Portogallo. Addirittura qualche fenomeno azzardò previsioni di un abbassamento ulteriore dello yield greco, appena a 25 punti base superiore di quello pagato dalla carta di pari durata portoghese, cioè al 3,25% contro il 4,95% effettivamente pagato: e oggi? 

Ve lo spiega a meraviglia quest’ultimo grafico, il quale ci mostra come in un solo anno il quinquennale ellenico sia passato da una domanda otto volte l’offerta a prezzare 60 centesimi sul dollaro! 

 

Cosa faranno ora i fenomeni che un anno si scannavano per comprare carta igienica greca a 5 anni al 4,95%? Se gli piaceva, oggi che trada uno yield del 20,2% ne saranno deliziati, immagino. Peccato che non solo speculatori in cerca di rendimento si lanciarono ma anche fondi, i quali magari quei bond poi li hanno rivenduti a incauti investitori o infilati in piani di investimenti nei quali oggi giacciono in attesa di valere quanto una carta di caramella, stessa sorte che toccherà ai mercati emergenti se a settembre la Fed alzerà i tassi. Cosa vi avevo detto un anno fa, quando tutti si strappavano le vesti per la Grecia rinata? Cliccando qui vi rinfrescherete la memoria.

 

P.S.: Ma tranquilli, perché non è solo Atene a dover piangere. Da ieri infatti abbiamo i dati ufficiali e, udite udite, l’eurozona sta annegando nel debito. Letteralmente, visto che il debito governativo ha raggiunto il 92% del Pil nel 2014, il livello più alto dall’introduzione della moneta unica nel 1999. Al primo posto, ovviamente la Grecia con una ratio debito/Pil del 177%, poi l’Italia del miracolo Renzi al 132% e terza la già semi-fallita Cipro con il 107%. Di più, i dati confermano che solo 4 nazioni su 19 dell’eurozona sono sotto la ratio del 60% imposta dal Trattato di Maastricht, mentre prendendo l’Europa nella sua interezza (cioè anche paesi che non hanno adottato l’euro), i criteri di debito vengono infranti da 16 Stati membri su 26. Evviva, che risuoni alto l’Inno alla gioia!